Qualche anno fa, a Bol, sulle sponde del lago Chad, un operatore umanitario mi disse che se non ero mai stato in Congo era come se non fossi mai stato veramente in Africa. A me sembrava, con una certa soddisfazione, di aver già vissuto negli anni tante esperienze nel continente e quell’anno aver persino raggiunto il suo cuore, un luogo remoto e sufficientemente incomprensibile. Ma evidentemente mi ero perso qualcosa.
Ecco che finalmente si presenta l’occasione di colmare questa imperdonabile lacuna.
Ma aprendo l’enorme capitolo Congo appare subito evidente quanto sia piccola in confronto la dimensione della nostra missione. Si tratta infatti di raccontare le sfide e le difficoltà di conciliare la conservazione della natura di un parco nazionale con le necessità di sopravvivenza della popolazione locale. La zona protetta è il Parco Nazionale dell’Upemba, nella regione del Katanga, sud est della Repubblica Democratica del Congo. Dal 2018 la ong italiana Coopi, in collaborazione con l’Istituto Congolese per la Conservazione della Natura (Iccn) e con i fondi dell’Unione europea, ha avviato un progetto di conservazione partecipata; in sostanza bisogna fare in modo che la gente che vive intorno al parco non sia costretta ad uccidere gli animali e a tagliare le piante del parco per poter sopravvivere.

Pur essendo tutta la regione ricchissima di minerali (rame, stagno, zinco, oro, diamanti, coltan, cobalto, in quantità da primato mondiale) la popolazione del Katanga vive in povertà estrema. Un classico paradosso di molte regioni nel Sud del mondo. Quello che il geografo Richard M. Auty nel 1993 chiamava “the resource curse”, la maledizione delle risorse. Nel caso del Parco dell’Upemba la vittima collaterale del conflitto per le risorse è la Natura.

Per il Congo la maledizione delle risorse va avanti da quando queste erano costituite dagli schiavi e la tratta era in mano ai portoghesi, ai commercianti afro-arabi e a M’siri, un autoctono che grazie al commercio fondò un vero e proprio regno all’interno del Katanga. Poi l’avorio (col boom di epoca vittoriana) e soprattutto la gomma (con l’invenzione dello pneumatico di Dunlop nel 1888) di re Leopoldo II del Belgio. Durante quest’ultimo periodo (1886-1908) si stima che per mano belga siano morti tra i quattro e i cinque milioni di congolesi.
Oggi sono i minerali la risorsa maledetta: minerali che per la loro sorprendente abbondanza costituiscono lo “scandalo geologico” delle regioni orientali del Congo (dalle parole del geologo belga Jules Cornet, autore nel 1896 di Les Gisements métalliféres du Katanga). Risorse che da sempre hanno innescato conflitti sanguinosi, attività predatorie internazionali, complessi ragionamenti geopolitici, e che oggi costituiscono la base di un circolo vizioso in cui i minerali vengono usati per finanziare la moltitudine di gruppi armati attivi nella zona. Un circuito ben oliato che nessuno vuole veramente interrompere. E a farne le spese sono i civili congolesi.

Nel 1961 Frantz Fanon scriveva: “Se l’Africa fosse raffigurata come una pistola, il suo grilletto si troverebbe in Congo” (in Pelle nera, maschere bianche).
Dai tempi di Fanon il grilletto è stato premuto già diverse volte e i proiettili non hanno colpito solo gli africani. Per quanto riguarda noi italiani, le ultime vittime sono state l’ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci, uccisi nell’est del Congo da un non ben identificato gruppo armato (insieme all’autista, Mustapha Milambo) il 22 febbraio del 2021.

Lubumbashi è la città più importante del Katanga, ha circa 2,7 milioni di abitanti, ed è il cuore economico della Rdc. Alloggiamo all’Hotel Bellevue, un vecchio albergo coloniale che si affaccia sulle bancarelle di Avenue Mwepo. Il nervoso traffico di mezzogiorno gira intorno alla statua di un piccolo elefante sul cui basamento è incisa la data della fondazione della città: 1909. Il 21 febbraio del 2021 i miliziani del gruppo Mai Mai hanno attaccato una caserma della città. L’eco delle violenze si avverte ancora oggi: alle nove di sera le vitalissime strade si svuotano ed entra in vigore una sorta di coprifuoco. La spazzatura viene raccolta e data alle fiamme direttamente in strada, l’aria si satura della puzza di plastica bruciata e le vie ormai deserte sono illuminate dai falò: una sequenza di piccoli inceneritori a bordo strada. In mattinata sentiamo una discussione concitata proprio sotto all’hotel: una pattuglia di poliziott ...[continua]

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