Consentite all’amico, non al collega, di iniziare con un ricordo: fui io a voler incontrare Paul. In un mattino della primavera 1994 bussai alla sua porta, in Borgo Pinti, qui a Firenze.
Alcune istituzioni della mia città (all’epoca ero ricercatore presso la Scuola Normale Superiore di Pisa) mi avevano chiesto di promuovere una riflessione su Enrico Berlinguer, a distanza di dieci anni dalla morte. Il tempo storico era quello della crisi delle istituzioni e del sistema politico che avevano connotato la vita della Repubblica dal 1946. Lo Stato era stato investito dalla grande slavina della corruzione della finanza politica illegale che aveva condotto alla morte dei partiti politici e rischiava di esserne travolto; in Europa orientale l’Unione Sovietica e gli Stati socialisti autoritari si erano dissolti, tra liberalizzazioni, privatizzazioni e regressioni nazionalistiche. Nei Balcani era tornata la guerra, a Sarajevo, novant’anni dopo il 1914. Quello era il tempo storico.
Il partito comunista italiano, il partito della strategia di una via costituzionale al socialismo, distinta dal modello sovietico come dall’integrazione socialdemocratica nell’economia di mercato, si era ormai lacerato e tutte le culture del secolare movimento operaio italiano si erano esaurite. La mia idea fu di chiamare a renderne conto un esponente dell’ultima generazione dei dirigenti del Pci, di quella generazione che aveva tentato di preservare la propria identità ancorandola ai pensieri lunghi di Berlinguer e alla sua idea di una diversità etica e politica dei comunisti italiani, nonché alla generosa ma illusoria prospettiva di ristrutturazione democratica del socialismo sovietico promossa da Michail Gorbacev. Dopo pochi anni, c’erano solo macerie.
Come interlocutore del dialogo scelsi Paul, perché il comunismo est europeo e asiatico mai avevano esercitato una qualche attrazione sulla sua immaginazione politica, e perché egli era sempre stato rispettoso delle lotte politiche dei comunisti italiani, ma anche fortemente critico nei loro confronti. Infine, lo ritenevo, oltre che uno storico raffinato, un analista lucido delle trasformazioni strutturali della società italiana.
Il 7 giugno 1994, nel Palazzo dei Congressi dell’Università di Pisa, di fronte a centinaia di studenti, Paul ricostruì con eloquenza e sapienza la riflessione di Berlinguer e, in particolare, le sue aperture innovative all’Europa, a una prospettiva di economia “austera” ed ecologica, all’universalismo democratico, sebbene ancorata a un paradigma di famiglia tradizionale e in parte incapace di comprendere la nuova società post-fordista, il ruolo dei consumi, i nuovi individualismi e le nuove forme di comunicazione mediatica.
Quel confronto (incontro e scontro) tra Paul Ginsborg e Massimo D’Alema avrebbe avuto una replica fiorentina molti anni dopo, all’epoca dell’insorgenza dei “ceti medi riflessivi”, come Paul volle definirli, contro l’impotenza dell’opposizione democratica al sistema Berlusconi, quel sistema di poteri a cui avrebbe dedicato un lavoro collettaneo coordinato con Enrica Asquer, nonché il suo Berlusconi. Ambizioni patrimoniali in una democrazia mediatica.
La concussione per induzione come coazione sociale e psicologica; la consuetudine alla corruzione; l’occupazione dello Stato da parte del sistema delle dazioni: tutto quello che era il contesto delle origini del fenomeno Berlusconi si rivelò, allo “sguardo da lontano” di Ginsborg storico, non solamente il prodotto della crisi della Repubblica dei partiti, ma forse anche un peccato originale della democrazia nazionale.
Non sorprende allora che la sua opera più importante, la Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi (edita nel 1989), non prenda le mosse dal 1945-46, bensì dal 25 luglio del 1943, dall’auto colpo di Stato del fascismo e della classe dirigente del regime. Di più: Paul probabilmente si andò convincendo che il trasformismo aveva sempre espresso il senso profondo dei trapassi di regime nella storia dell’Italia unita, e che la stessa fondazione della presunta “seconda Repubblica” era solo una piéce teatrale già giocata, per dare appuntamento ancora una volta all’Arcitaliano.
Ricordo anche che in una successiva conferenza, da me promossa presso la Scuola Normale Superiore il 31 gennaio 1997, per discutere con Vittorio Foa il suo libro appena pubblicato, Questo Novecento, entrambi (voglio dire Vittorio Foa e Paul) imputarono a Giovanni Giolitti la responsabilità storica di avere eretto la corruzione a strumento di dominio politico nell’Italia liberale e monarchica, a partire dallo scandalo della Banca Romana del 1892.
II. La Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi divenne subito un classico: fu persino distribuito ai parlamentari italiani e conquistò il rango di testo di formazione della maggior parte degli studenti universitari.
Nel 1989, quando il libro uscì, Paul Ginsborg aveva già ottenuto diversi incarichi di insegnamento negli Atenei di Torino e di Siena, ma era ancora nei ruoli del Churchill College di Cambridge. Tre anni dopo, divenne docente fiorentino.
A Cambridge egli era fatto allievo di Brian Pullan, ma il riferimento degli studi sull’Italia in quella Università era Denis Mack Smith, il celebre storico del Risorgimento, con cui avrebbe interloquito e a cui avrebbe dedicato nel 1991, con J. Davis, Society and Politics in the Age of the Risorgimento. Forse da Mack Smith Paul aveva appreso eleganza e fluidità narrativa, non però le categorie interpretative.
Il primo libro di Paul, Daniele Manin e la rivoluzione veneziana nel 1848-49, era stato infatti pubblicato in lingua italiana nel 1978 e nella lingua originale nel 1979, quando venne apprezzato “per la struttura raffinata ed elegante” da Henry Hearder sul “Times Literary Supplement” e da John Rosselli sulla “English Historical Review”. Nel libro, Paul aveva applicato in modo creativo alcune categorie gramsciane relative alle cause storiche della sconfitta dei democratici e dei repubblicani del Risorgimento, che si erano rivelati incapaci di comprendere i bisogni sociali delle diverse popolazioni contadine italiane, la loro stratificazione sociale nelle diverse regioni d’Italia, la questione della riforma agraria. Le applicò, quelle categorie, nell’analisi economica sociale delle campagne venete e per spiegare i limiti e le caratteristiche della politica repubblicana di Daniele Manin: avvocato prudente e onesto impegnato a rivendicare prima l’autonomia amministrativa di Venezia nell’Impero Asburgico; costretto poi dalla rivoluzione a radicalizzare la propria politica facendosi repubblicano: democratico sì, ma non immune al mito municipalistico della libertà dell’antica repubblica di Venezia -quella che un amico di Paul dell’epoca di Cambridge, Quentin Skinner, ha codificato come Liberty before Liberalism). Insomma: non è azzardato concludere che forse Paul vide in Daniele Manin un precursore del ceto medio riflessivo, un sincero difensore della giustizia sociale ma un intellettuale incapace di coinvolgere i contadini.
III. Venti anni dopo il libro su Manin e nove dopo la sua Storia d’Italia, Paul pubblicò nel 1998 L’Italia del tempo presente. Famiglia, società civile, Stato. Il periodo storico considerato in questo testo era assai breve -appena tre lustri, tra 1980 e 1996- e prevaleva non la diacronia storica, ma l’analisi sincronica della struttura dell’economia, delle classi sociali, delle relazioni familiari, dei consumi e della cultura di massa: insomma la genealogia dell’Italia odierna, nel contesto della nuova grande trasformazione dell’Occidente. Paul, tuttavia, si dichiarava convinto che le strutture fondamentali della pubblica amministrazione e dello Stato fossero contrassegnate da una importante continuità: la Repubblica -scrisse- era “rimasta ostinatamente se stessa” rispetto a una società travolta dalla trasformazione. Paul scrisse anche che la sua storia d’Italia dal dopoguerra, la storia pubblicata nel 1989, recava non poche tracce degli ideali che avevano connotato la sua generazione (e, mi permetto di aggiungere, alla luce dell’idea di “generazione lunga” proposta da Marc Bloch, anche la mia): cioè gli ideali gobettiani e gramsciani, consiliari, azionisti rinnovati nell’utopia sociopolitica del Sessantotto. Li ha condensati in una sentenza tali ideali, proprio Vittorio Foa, che fu sempre suo amico e mentore:
“Vi è sempre stato -scrive Foa- sempre represso dai due grossi concorrenti, la socialdemocrazia e il comunismo, un socialismo libertario che rivendicava autonomia del lavoro e autodeterminazione della persona nel lavoro e nella vita delle lavoratrici e dei lavoratori. Il socialismo delle autonomie non è mai riusato ad affermarsi come sistema […]. Lo si è sconfitto, certo, ma non si è riusciti a cancellarlo […]. Comunque, rimane un problema aperto” (Cito da Lettere della giovinezza, pubblicato nello stesso anno della uscita del libro di Paul 1998).
Leggiamo anche le parole di Paul del 1998:
“I sogni sociopolitici del Sessantotto, in altre parole, sono stati (da me) rielaborati attraverso i codici del riformismo democratico”, scrisse nella prefazione al volume monumentale di 1.060 pagine nato dalla fusione dei testi sulla storia d’Italia dal dopoguerra e sull’Italia del tempo presente. Il riformismo democratico rivendicato in sede di ermeneutica storiografica rinviava a questioni classiche: Gaetano Salvemini, su “Il Ponte” del gennaio 1952, all’Italia monarchica e liberale aveva rifiutato la qualifica di democrazia, e Federico Chabod, nove anni dopo, aveva dovuto ammettere che la rivoluzione repubblicana e costituzionale del 1946-1948 non aveva intaccato la continuità dello Stato. A Paul, lo Stato italiano della fine del Novecento apparve allora, nel 1998, connotato dalla dissoluzione delle élites dirigenti e dalla confusione di funzioni e ruoli dei suoi organi; devastato dall’occupazione dei partiti (occupazione che fu all’origine della rivolta fiscale nel Nord-Est); attraversato dalla crisi indotta dal debito pubblico accumulato per decenni nell’illusione di correggere le deficienze strutturali del nostro dualismo economico Nord-Sud; minacciato dai poteri criminali dei mondi di sotto e di sopra.
IV. Se nel 1860 Leopoldo Franchetti aveva già definito le forze criminali meridionali “autentiche formazioni sociali autonome”, nel 1998 Paul ne contestava il dominio su ben tre regioni, e ne illustrava la contiguità con i controllori delle funzioni amministrative e del denaro pubblico. Paul affermava cioè il proprio riformismo democratico ma era consapevole che esso avrebbe potuto essere annientato dalla crisi della politica e, soprattutto, dalla crisi della strumentazione tradizionale della politica: le istituzioni dello Stato, i servizi pubblici, la pubblica amministrazione. Sembrò riporre anche qualche speranza nel ruolo dei magistrati, ma sarebbe stato deluso, di lì a qualche tempo, dalla degenerazione correntizia del terzo potere.
Le sue pagine più penetranti, infine, le dedicò alle nuove diseguaglianze sociali, geografiche, etniche e di genere: disegnò la “pera Williams” della distribuzione dei redditi, combinò sociologia, statistica e storiografia, studiando le connessioni tra famiglia, società civile e Stato; criticò e superò il paradigma di una società italiana eternamente afflitta dal “familismo amorale” e dal particolarismo e rivelò invece le molteplici interazioni moderne tra il “particulare” e le pratiche clientelari diffuse nella società civile; non risparmiò anche le responsabilità proprie di posizioni culturali e politiche estranee od ostili allo Stato e all’etica pubblica, quelle che avevano connotato le culture e le forme associative del mondo cattolico o del sindacalismo corporativo di radice socialista e comunista.
V. Con il tempo, per lui divenne sempre più difficile mantenere il distacco tra impianto analitico e impegno civile, a fronte delle minacce rappresentate dall’autocrazia patrimoniale e dal neonazionalismo populista: lo documentano testi come La democrazia che non c’è (2006), Salviamo l’Italia (2010), Passioni e politica (con Sergio Labate, 2016). E la sua ambizione ultima fu quella di allargare lo spettro analitico delle connessioni tra famiglia, società civile e Stato, e farne un paradigma ermeneutico della storia italiana ed europea del Novecento, di cui riuscì a offrire un primo esempio innovativo con Famiglia Novecento, uscito nel 2013: l’indagine sulle tipologie delle transizioni (dalla Russia imperiale a quella sovietica, dalla Germania di Weimar a quella nazista, dall’Impero ottomano alla repubblica kemalista, dall’Italia liberale a quella fascista, dalla Spagna repubblicana a quella franchista), decifrate grazie a una metodologia comparativa applicata alla storia sociale, al diritto di famiglia, alla teoria politica.
Ricordo che nel 2018 lo invitai ad anticipare gli ulteriori sviluppi di questa ricerca e che parlò, a Pisa, delle pratiche alternative alla struttura familiare proprie dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta. Il nuovo libro non sarebbe uscito.
E ora non potrò più ascoltare Paul, né potrò più nuotare con lui nel mare di Astypalia, camminare con lui sul Sentiero del Doganiere in Corsica, andar con lui per funghi sulle amate Apuane. Ciao Paul, e grazie per tutto questo.
Letto in Firenze il 14 maggio 2022, in occasione delle esequie.
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