Relazione di Michele Battini tenuta il 4 novembre 2023 al convegno “Cambiare il mondo o salvaguardarlo? Alexander Langer e i rapporti con la Germania e l’Europa” a Bolzano. Il convegno è stato organizzato dalla fondazione Alexander Langer, dall’Università di Firenze - Forlipsi e dall’Istituto italiano di studi germanici.

I. Dieci anni dopo il suicidio, le corrispondenze di Alexander Langer dall’Italia, curate per la rivista francofortese “Kommune” dal 1984 al 1995, vennero selezionate e tradotte per le edizioni di “Diario” -la bella rivista diretta da Enrico Deaglio- e per la Fondazione Langer, presieduta dall’amico di una vita, Edi Rabini.
In “Kommune”, fondata dopo lo scioglimento della Kommunistischer Bund Westdeutschland, convergevano i contributi di ex militanti dell’Ausserparlamentarische Opposition -nata nella Germania occidentale in risposta alla formazione nel 1966 dei governi di Grosse Koalition- e del movimento studentesco antiautoritario, che si era disgregato dopo l’occupazione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia nell’agosto 1968. Alla rivista collaborarono anche dissidenti della Ddr, come Rudolf Bahro e Christa Wolf. Negli anni Ottanta, la rivista animò la discussione tra i Grünen sulla partecipazione al governo e su temi cruciali, quali ambiente e trasformazione della struttura del lavoro, tecnologia e neocapitalismo, unificazione mondiale dei mercati e forza distruttiva del socialismo di Stato dell’Europa orientale, nel suo ultimo momento imperialistico. Alexander Langer ne fu protagonista, ma scomparve prima che parte della generazione tedesca del Sessantotto ascendesse al governo nel 1998 (Joschka Fischer fu ministro degli Esteri e vicecancelliere del governo del socialdemocratico Gehrard Schroeder), mentre altri si dedicavano agli studi e alla scrittura (Oskar Negt, Gerd Koenen e Uwe Timm).
Mentre in Italia Langer avviava la propria “semina verde”, in Germania spiegava l’Italia. Il volume delle traduzioni delle Briefe aus Italien scritte per “Kommune” venne edito a cura di Clemente Manenti, che ne propose una contestualizzazione sintetica e rigorosa nella storia europea tra il 1984 e il 1995: dal lungo sciopero dei minatori inglesi alla perestrojka sovietica, dalla rivolta del pane in Algeria al trattato di Maastricht, dalla “Germania riunificata per incantesimo” (la formula era di Manenti) alle guerre etniche nella post Jugoslavia.
“Sulla scala ridotta dell’Italia” -precisava Clemente- il periodo delle Briefe correva dall’arresto di Enzo Tortora ai governi del cosiddetto Caf (l’asse Craxi-Andreotti-Forlani), dalla guerra di mafia contro lo Stato all’esplosione dell’intreccio concussione-corruzione, dal tracollo della lira alla bancarotta dei partiti e della Repubblica: “il punto zero che è l’equivalente del crollo del Muro di Berlino, visto dalle torrette di Berlino Est. In fondo -ironizzava- l’Italia era un paese socialista, no?”.
“Poi, ancora: Mani Pulite, gli infarti e i suicidi collaterali, la cavalcata delle valchirie di Mariotto Segni, l’annuncio della discesa in campo, la prima volta, di quell’amalgama nuovo ma non tanto, attrezzato a condurre la campagna di annientamento del linguaggio e del discorso tout court, politico e comune. Cominciava la transizione, nella quale siamo tuttora (2005, n.d.r.) immersi […]. Ora, leggendo le corrispondenze di Alex Langer dall’Italia, cominciate venti e interrotte dieci anni fa, la sindrome di spaesamento si ripresenta in vitro, sublimata. Tutto è rimasto uguale […], ma qualcosa non torna. Forse dipende dall’ispirazione anticipatoria, divinatoria, dell’autore […], uno che vedeva lontano e guardava ancora più lontano. Leggendo i suoi dispacci dal teatrino della politica italiana di allora e dei suoi attori, che in buona parte permangono, siamo percorsi da un brivido di déjà vu all’incontrario. Come il presente ritorna nel passato?”. Concludeva infine Clemente: “In realtà, i lettori di ‘Kommune’ erano in larga parte compagni di strada e di idee di Alexander Langer, coinvolti con lui nella conversione ecologista del Sessantotto, i quali, in passato, avevano coltivato un mito sommario dell’Italia e dei coetanei italiani più fortunati di loro (o meno orfani, poiché potevano in parte vantare padri antifascisti combattenti)”.
Il passaggio sulla “condizione di orfani” può essere illuminato da una pagina dei taccuini inediti di Manenti: “Del Sessantotto gli aspetti sono due -il fatto che larghi strati di giovani e adolescenti di tutti i paesi del mondo siano stati colpiti da una febbre influenzale improvvisa e simultanea, che li ha costituiti come soggetto, (e) la facilità e quasi simultaneità della loro dispersione e sconfitta”. Il Sessantotto, infatti, fu ‘un fenomeno mondiale’, soprattutto “perché quella impropriamente chiamata la Seconda guerra mondiale è stata la prima guerra davvero mondiale. La generazione nuova, non toccata dalla guerra, ma nata dentro o a ridosso della guerra, ha ‘aperto gli occhi’ dappertutto contemporaneamente. Gli italiani nati dal ’40 al ’48 sono nati tutti l’8 settembre 1943; i tedeschi loro coetanei sono nati l’8 maggio del ’45; i giapponesi il 10 luglio del ’45. Orfani figli di orfani dal punto di vista civile: non poteva non essere una generazione da bruciare, sono nati nel nulla, figli della bomba atomica”.

II. Clemente Manenti era nato in Sicilia, ad Agrigento, nel 1941; Alexander Langer nell’Alto Adige-Südtirol, a Sterzing-Vipiteno, nel 1946: nati agli antipodi della penisola, appartennero alla stessa generazione, venuta alla luce nell’Europa dominata da nazisti e fascisti, devastata dalla guerra totale e dallo sterminio degli ebrei, nel mondo di Auschwitz e Hiroshima: la generazione dell’anno zero, la si potrebbe definire in omaggio a Roberto Rossellini e al suo film.
Langer studiò Diritto a Firenze, Manenti storia e cultura tedesche nell’Università di Pisa. Il Sessantotto di Langer fu tirolese, civico, transfrontaliero; quello di Manenti berlinese -l’epilogo di lunghi soggiorni di studio trascorsi nelle due Germanie tra 1966 e 1968, per comporre una tesi sul movimento operaio dell’epoca della Repubblica di Weimar- ed espressione di un’acuta intelligenza dei movimenti da ambo i lati del confine: eresie marxiste a Ovest e dissidenza a Est contro il regime della Ddr (che definiva un “innesto di marxismo dogmatico stalinista e tradizione poliziesca dello Stato prussiano”).
L’incontro tra Langer e Manenti avvenne in Germania occidentale nel 1973. Langer in Germania orientale era andato nel 1968 e l’anno dopo aveva tenuto a Tubinga una conferenza sulla falsa democratizzazione postconciliare della Chiesa cattolica; dal 1972 militava tra Francoforte e Colonia, studiando per Lotta Continua la classe operaia multinazionale formatasi al di là delle Alpi. Manenti, dopo la militanza a Pisa e in Germania, poi in Sicilia nel 1971-’72, venne incaricato della commissione internazionale di Lotta Continua, con Lisa Giua Foa, e inviato in Svizzera, Francia, Portogallo e Germania occidentale. Qui, proprio a Francoforte, organizzò con Langer un convegno europeo sul Cile, nel febbraio 1974. Tali esperienze fecero di Clemente Manenti “un amico stretto (quasi un alter ego) di Langer. Poliglotti ambedue, a lingue materne invertite”. Scrissero entrambi parti importanti dei documenti del Congresso Nazionale di Lotta Continua del 1975 e l’anno successivo, “mentre alcuni dirigenti di primo piano […] si ritiravano totalmente […] dopo il congresso di sostanziale autoscioglimento” -sono parole di Langer- entrambi cercarono di mantenere strutture di riferimento per i militanti, a partire dal giornale quotidiano. Combatterono insieme l’approdo terroristico dell’opposizione extraparlamentare in Germania, culminato nella tragedia di Stammheim, e fu Clemente Manenti che scrisse in prima persona l’appello, firmato anche da alti prelati della Chiesa cattolica, per la salvezza di Aldo Moro. Sua la durissima condanna del comunicato n. 7 delle Brigate Rosse: “Non si può rivendicare a proprio merito il ‘trattamento scrupoloso’ riservato ad Aldo Moro, il rispetto dei suoi diritti di prigioniero politico, e al tempo stesso attribuirsi l’arbitrio di calpestare il diritto fondamentale di un prigioniero, quello di non essere ucciso”.

III. Alla riflessione di Manenti sulla “generazione degli orfani”, la generazione dell’anno zero, replica indirettamente una “Lettera dall’Italia” di Langer, nel febbraio 1986: “Dal momento che la coscienza storica consolidata ritiene che la macchia del fascismo sia stata lavata dalla Resistenza, e che del resto le atrocità del militarismo e dell’imperialismo italiano […] sono entrate nel cono d’ombra dello sdegno per i crimini del nazionalsocialismo, l’Italia si è potuta risparmiare un lavoro di elaborazione del passato”. I padri antifascisti combattenti potevano costituire un alibi per evitare un esame di coscienza autentico.
In Germania, pochi mesi dopo, l’esame di coscienza precipitò nella Historikerstreit: conflitto non solo accademico, bensì nello spirito pubblico. Nella sua Briefe, Langer utilizzava la formula “coscienza storica”, intreccio tra storia (storiografia) e memoria. La Historikerstreit pose proprio la questione di quale dovesse essere il fulcro della coscienza storica tedesca. Il 6 giugno 1986 Ernest Nolte, nella conferenza “Vergangenheit die nicht vergehen will”, pubblicata nella “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, asserì che il nazismo era stato una risposta alla sfida del bolscevismo, partito ideologico internazionale della guerra civile, e allo sterminio di classe (kulaki, proprietari, borghesi). Lo sterminio bolscevico-staliniano sarebbe stato più “originario” dello sterminio nazista degli ebrei d’Europa. Così la relativizzazione storica conduceva a negare la centralità della Shoah nella coscienza storica della Germania postbellica. Saul Friedländer, Jurgen Habermas, Jurgen Kocka e Mártin Broszat criticarono Nolte. Andrea Hillgruber replicò che la coscienza storica tedesca avrebbe dovuto fondarsi, invece, sulla presa d’atto del fallimento del processo di costruzione dello Stato nazionale germanico, nato dall’unificazione di una moltitudine di enti e istituzioni di Antico Regime entro la cornice autoritaria prussiana; il Reich guglielmino e la sua potenza economica e militare, dal 1870 avevano rotto l’equilibrio europeo e poste le premesse della catastrofe 1914-1918.
Poi né Weimar (la democrazia) né il nazismo (il totalitarismo) avevano evitato il fallimento dello Stato tedesco. Lo sterminio ebraico si spiegava solo nel contesto della crisi militare dell’operazione Barbarossa e della sconfitta del progetto nazista di Nuovo Ordine Europeo fondato sulla colonizzazione delle regioni orientali e sovietiche. La catastrofe della Germania -così l’aveva definita già Meinecke- aveva trascinato con sé l’autodistruzione dell’Europa come soggetto politico, la lacerazione del continente dopo Yalta, la divisione tra Brd e Ddr.
Dell’elaborazione del passato nella coscienza storica tedesca, Manenti si era occupato già durante il suo primo soggiorno di studio, nel 1966. Da Colonia (in contatto con il direttore dell’Istituto italiano di cultura, Felice Merlo, figlio di un illustre glottologo dell’Ateneo pisano negli anni 1930-’50), aveva scritto il 29 marzo: “Appena arrivato, ho partecipato a una marcia di protesta antiamericana (per il Vietnam, Ndr.) organizzata da un gruppo di studenti ex Spd, la socialdemocrazia tedesca […]. Soprattutto nel Nord, a Brema, Amburgo e anche Berlino (cioè, i vecchi centri comunisti) questi gruppi […] hanno un’influenza crescente […]. Credo anche che gli studenti più avanzati non abbiano nessun contatto con la Sed (il partito socialista unificato della Germania orientale, Ndr.), ma forse ne hanno con elementi di opposizione all’Est”. (Nato nel 1940, Rudi Dutschke era fuggito dalla Ddr nel 1961 e animava l’opposizione extraparlamentare in contatto con il dissenso a Est).
E ancora: “I cattolici, in Germania, sono più neri dei protestanti. Ho letto che […] soprattutto il quadro medio nazista veniva dalle fila dei cattolici. Nella sala di lettura ci sono molte riviste cattoliche e in quelle tedesche quasi ogni articolo si occupa dei ‘Grenzen’, dei confini orientali: è una cosa impressionante. Non si limitano alla ‘zona’ (la Ddr): vogliono mezza Polonia, mezza Cecoslovacchia, Danzica, la Lettonia, la Lituania (le nazionalità oppresse dall’Urss) e arrivano a dire che l’Ucraina è sempre stata culturalmente e politicamente legata al Geist tedesco, questo maledetto Geist con cui condiscono ogni pietanza. Dell’Urss parlano sempre in termini di nazionalità (russi bianchi, grandi russi, piccoli russi, ucraini, estoni, lituani ecc. ecc.), mentre […] il clero tedesco è legato a filo doppio a quello polacco - e, visto da qui, il rigore dei comunisti polacchi verso l’episcopato locale è ben comprensibile […]! La prospettiva di un soggiorno nella Ddr diventa sempre più interessante”.
Con Adenauer (che governò tra 1949 e 1963) il percorso della Entnazifizierung (denazificazione), avviato dopo la conclusione dei processi “secondari” di Norimberga contro i vertici della Wehrmacht, gli industriali, i banchieri, ecc., si era definitivamente arrestato, a causa delle leggi sull’impunità (1949 e 1951) e delle resistenze della magistratura. “La grazia del verdetto tardivo” (Gnade der späten Entscheidung) -come l’ha definita Christian Meier- aveva condotto al reintegro di decine di migliaia di quadri nazisti nella Brd. Alla Schuldfrage evocata da Karl Jaspers si era risposto con un silenzio assordante. I Volksdeutschen tornati dai confini orientali avevano assunto un notevole peso politico e il partito degli esuli (Gesamtdeutschen Bund der Heimatvertriebenen) era entrato in coalizione con Cdu e Csu bavarese. La restaurazione delle carriere naziste era culminata infine con il reintegro del feldmaresciallo generale Erich von Manstein nel nuovo esercito, la Bundeswehr, e del generale Reinhard Gelhen nei nuovi Servizi segreti (naturalmente, vi era stato anche chi si era opposto: tra 1958 e 1965 l’opinione pubblica era venuta a conoscenza delle atrocità naziste con il processo di Ulm alle Einsatzgruppen attive in Lituania e, soprattutto, con il grande processo all’apparato di Auschwitz, celebrato a Francoforte dal 1963 al 1965; in entrambi i casi, grazie all’eroico impegno del procuratore Fritz Bauer; dal secondo giudizio, Peter Weiss trasse il dramma teatrale L’istruttoria, oggi spettacolo ufficiale nel Giorno della Memoria della Shoah, 27 gennaio).
Annotava Clemente da Berlino: “La posta in gioco rimane sospesa tra domande e risposte: nelle risposte però non c’è attesa -a meno che esse, le risposte, non siano che nuove domande. Ma dove non c’è attesa non c’è neppure speranza […]. Separare dal presente il passato significa distoglierlo, staccarlo, sospingerlo via: la ragione nasce […] nel prendere le distanze dal passato, cioè, creare una prospettiva nel tempo”. Solo la coscienza storica comprende i fatti eclatanti di fronte ai quali i contemporanei furono ciechi: “Lo sbigottimento degli abitanti dei dintorni di Buchenwald di fronte alla vista del campo, costrettivi dai militari americani, di fronte a ciò che avevano sempre visto e saputo […]. Il conformismo è prima di tutto un fenomeno ottico, come l’omertà”.

IV. Dal 1979-’80, Clemente Manenti tornò a Berlino Ovest. In contatto con l’artista Joseph Bevys, lo scrittore Peter Schneider, il giornalista Joseph Siemens, avviò collaborazioni editoriali con gli editori Wagenbach in Germania e Sellerio in Italia; lavorò con Margit Bachfischer e Katrin Boskamp-Priever al libro fotografico Castles in Italy (Koremann, London), alla sceneggiatura di un film tratto dal Lenz di Peter Schneider, ai dialoghi di film documentari per il Festival di Berlino. Sostenne i giornali della nuova sinistra europea (“Libération”, “Tageszeitung”, “Lotta Continua”) e partecipò a gruppi di studio sulle Volks Hochsschulen (le scuole popolari per adulti, di cui ripropose l’esperienza a Poppi, in Toscana), sui movimenti ecologisti, sui lavoratori turchi immigrati in Germania.
Le corrispondenze da Berlino tra 1985 e 1986, pubblicate nel settimanale culturale “Fine Secolo”, supplemento del quotidiano “Reporter”, affrontavano le relazioni intertedesche, politica e cultura della Bdr, il nodo della coscienza storica tedesca. Con Anna Devoto, l’8 marzo 1985, pubblicò “Il nostro boia normale”: il ritratto di Veit Harlan, il regista di “Jud Süss”, film antisemita del 1939 che era stato visto da più di 19 milioni di tedeschi (nel 2010 avrebbe scritto un omaggio al figlio, Thomas Harlan, e al suo Wundkanal, un documento spietato verso i nazisti e il padre).
Ne “L’ombra di Bitburg” (maggio 1985) denunciò lo scandalo della visita del cancelliere Helmuth Kohl e del presidente Usa Ronald Reagan al cimitero militare in cui erano sepolte molte Waffen-Ss, seguita dal pellegrinaggio ipocrita al campo di Bergen Belsen. In “Ricordo, riconciliazione, capitolazione, liberazione” (estate 1985), affrontò di nuovo la rimozione del passato nazista nella coscienza storica della Germania. In “Arrivano gli Slesiani”, denunciò la sintonia tra conservatori democristiani e associazioni dei profughi dai territori orientali del Reich -Pomerania, Slesia, Prussia- che erano stati in realtà inviati dal 1939 a colonizzare i territori del Governatorato di Polonia). “Totentanz per la patria perduta” (luglio 1985) fu il suo clamoroso reportage dal festival di Hannover dei profughi e del loro incontro con il cancelliere Kohl. In “Passaggio a Ovest e ritorno” (novembre 1985) riferì la delusione della scrittrice Doris Paschiller, dopo aver ottenuto il permesso di emigrare dalla Ddr a Ovest. Sarebbe tornato ancora a Berlino per scrivere la storia dell’edificio dell’ambasciata fascista a Berlino e uno splendido ritratto di Rudi Dutschke.
V. Il primo impegno di Langer era stato quello che lui stesso definì la “sperimentazione della convivenza in piccolo”, in gruppi misti di liceali di madrelingua tedesca, italiana, ladina in Alto Adige-Südtirol e nelle riviste del dissenso sudtirolese di lingua tedesca (“Die Brucke” - “Il Ponte”, 1967). Cruciale, anni dopo, fu la battaglia contro il censimento della popolazione sudtirolese dell’ottobre 1981, in applicazione dell’articolo 89 dello Statuto di autonomia, con l’obbligo della dichiarazione di appartenenza a uno dei tre gruppi linguistici: Langer la definì una “schedatura etnica”, “il più grave avvelenamento dei rapporti interetnici dall’accordo Hitler Mussolini del 1939”, “un processo analogo a quello che aveva portato al muro tra le due Germanie”. Nelle sue importanti cariche istituzionali in Trentino-Alto Adige-Südtirol (consigliere per tre volte: 1978, 1983 e 1988) e al Parlamento europeo (deputato nel 1989 e nel 1994) si occupò sempre delle differenze linguistiche ed etniche e studiò le connessioni tra nazionalità, Stato ed economia, particolarmente complesse nella storia tedesca e dei territori multilingue dell’Europa centrorientale e balcanica, segnati dalle eredità della dissoluzione degli Imperi Centrali e della Seconda guerra mondiale. Impegnato nel progetto di trasformazione federalistica delle relazioni tra Stati e comunità locali, avvertì nelle guerre tra Croazia e Slovenia, tra Serbia e Croazia, tra le comunità della Bosnia e più in generale nei Balcani -si occupò direttamente dell’Albania per conto del parlamento europeo- i segni del risorgente nazionalismo politico e del fallimento della convivenza interetnica in Europa: la prova che la coscienza storica della tragedia dei fascismi e della Seconda guerra mondiale si era offuscata.
La “politica sperimentale” della convivenza costituisce dunque la vera continuità nella sua riflessione. In questa si avverte però anche una cesura fondamentale, tra l’adesione giovanile all’opposizione extraparlamentare marxista, ancora connotata dalla cultura industrialista della tradizione socialista del movimento operaio, e la nuova prospettiva ecologista e pacifista di un riscatto della storia umana inseparabile dalla salvezza della storia naturale. Cesura da lui stesso presentata come metanoia, conversione, trapasso dal vecchio al nuovo testamento.
Tradizione ebraica paterna e spiritualità evangelica alimentarono costantemente la riflessione di Langer, dai testi giovanili (“Per la vittoria del Regno di Dio” e “Il cristianesimo rivoluzionario”) al riconoscimento delle ragioni della bioetica cattolica. Sul pensiero di Joseph Ratzinger, nel 1987 assunse una posizione accostabile a quella di Habermas: la possibilità di conciliare, attraverso il diritto, la difesa della vita e l’autodeterminazione delle donne. Lo stesso decalogo per la convivenza interetnica (forse il testo più conosciuto di Langer, pubblicato sulla rivista “Arcobaleno” dei Verdi del Trentino il 23 marzo 1994) presuppone un’ispirazione di tipo ecumenico. E una dimensione “teologico politica”, per così dire, non era stata estranea neppure all’esperienza rivoluzionaria: lo spiega Manenti, ancora in una pagina dei taccuini, scritta poche settimane prima della morte di Langer. “La strategia di Lotta Continua era lo Spirito Santo collocato nelle masse: collocare la strategia nell’aldilà è però la radice di ogni integralismo politico, perché trascendere la politica è negarla, non illuminarla”. Riflessione che implica l’ulteriore domanda se la metanoia di Langer e la conversione della generazione dell’anno zero significarono un reale superamento del trascendentalismo.
VI. Immune dalla paura tirolese di perdere la propria identità, proprio in quanto cosmopolita e siciliano (Sicilia “isola aperta a tutti, dove le culture si sono intersecate e scambiate” - rispose Leonardo Sciascia alla domanda di Langer) Manenti fu una di quelle “persone di raro talento, che, ammirate nella cerchia degli amici sono pressoché sconosciute al pubblico, per un riserbo e una sobrietà esasperanti” -così scrive Adriano Sofri nella postfazione al libro di Manenti sulla rivoluzione ungherese del 1956. Clemente, infine, ammise che, “a differenza delle generazioni normali, utili, la nostra è stata una generazione segnata proprio da ciò che non volevamo: una missione da compiere nella fatalità della rivolta a nome di tutti […]”. Debole, spesso velleitaria, ma libertaria, appartata, anarchica, una “crociata dei bambini” che era destinata alla sconfitta e terminò, secondo Clemente, con la battaglia per salvare la vita di Aldo Moro. Durante il rapimento di Moro e nella polemica contro i brigatisti, per la prima volta essa si tentò di articolare un linguaggio adeguato alle circostanze, “disarmato”. E forse proprio quello -aggiunse- fu il vero capo di imputazione nei confronti di Sofri, Bompressi e Pietrostefani, accusati nell’agosto 1988 dell’omicidio (17 maggio 1972) del commissario Luigi Calabresi, insieme a Mauro Rostagno, che venne assassinato dalla mafia poche settimane dopo. Per Langer l’accusa contro i propri compagni fu l’inizio “della demolizione di una generazione”.
Clemente Manenti: “Nel processo dell’Inquisizione esisteva qualcosa di simile alla procedura seguita in questi processi: la possibilità dell’inquisitore di attingere a testimoni anonimi, che tali restavano nel corso del processo, quindi testi di accusa puramente virtuali […]. La prova non ostensibile è una prova innominabile. Com’è possibile […] che un processo (vi) possa far ricorso […]? Questo è ciò che nel secolo scorso sarebbe stato dichiarato l’elemento kafkiano di tutto il processo: una prova che viene fatta pesare non per quello che è, ma per quello che non è […] Lotta Continua era una banda anarchica -al di là delle definizioni che, volta a volta, cercava di dare di sé (controprova: tutte le altre organizzazioni coetanee fondavano la propria differenza da Lc precisamente e sostanzialmente su questo punto). L’opinione che Lotta Continua aveva di sé era assolutamente alta, come lo può essere soltanto l’opinione anarchica, una specie di delirio: per la prima volta nella storia, un delirio anarchico ampliamente collettivo. […]. È tradizione anarchica però quella di misurarsi personalmente con ciò che si fa, di rispondere delle proprie azioni: se un anarchico uccide il Re, lo fa in prima persona, un anarchico non uccide mai indiscriminatamente. Ogni azione anarchica è immediatamente privata e pubblica [...]. Nessun anarchico agisce di nascosto”.

VII. Lisa Giua Foa ha dichiarato che “l’ultimo decennio del Novecento, per me e molti amici, è stato il decennio di Alexander Langer” - accostando Langer proprio a Clemente Manenti.
La convergenza tra i temi trattati da Langer su “Kommune” e i luoghi dei taccuini di Clemente è infatti straordinaria. Langer -ad esempio- scrisse “Socialisti e comunisti” nel luglio 1988, “È cominciato il post-comunismo” nel gennaio, “La metamorfosi di Occhetto” nell’aprile e “Il neonato Pds” nel novembre 1990, manifestando la delusione per la mancata gestazione di un partito della sinistra diverso dal passato, ambientalista, femminista, libertario ma anche realista. Manenti rinviava al contesto della disgregazione del sistema dei partiti di governo e al “tracollo del socialismo reale”, in seguito “alla transizione gorbacioviana avviata nel 1985”, il cui fallimento, nel 1989, aveva trascinato i comunisti ma anche i socialisti, che “rappresentavano l’alternativa gestionale del sistema, in realtà un personale di ricambio che aveva approfittato della sua posizione di cerniera per arricchirsi”. Definì Gorbacev “un occidentalista, ma solo in quanto slavofilo: il cuore dell’Europa batte di nuovo a Oriente […]”; occidentalista come lo era stato “Giovanni Paleologo, l’ultimo imperatore dell’Impero romano cristiano d’Oriente, che cercò scampo dai Turchi nella cristianità romana d’Occidente […]. Nel periodo tra 1989 e 1994, la geografia politica è stata così ridisegnata: Oriente, Occidente, Asia, Europa, Islam, l’area di Costantinopoli [...], e i nuovi confini, dappertutto, sono tra nord e sud. Tutte le cerniere create dal centralismo burocratico del socialismo sovietico (l’erede del dispotismo asiatico coniugato con la Rivoluzione francese e poi con i vecchi imperi europei) e anche le cerniere fra popoli, nazioni e religioni, si sono riaperte”. L’Europa si presenta come se ci fosse stata una terza guerra mondiale, “conclusa il 13 novembre 1989, riportandoci indietro al 1919, indietro esattamente di settanta anni, quanto è durata l’Unione Sovietica. Perciò la questione non è quella di cambiare nome (al Pci) ma di abbassare la cresta, almeno nell’Europa orientale. E che di cresta si tratti, nel caso di Occhetto, lo dimostra il suo profilo. Non di abbassarla nei confronti di Craxi e di Andreotti, ma della gente, a partire dai suoi”. I titoli delle “Lettere dall’Italia” scritte da Langer tra giugno 1992 e gennaio 1993 sono improntati ad un assoluto pessimismo (“Difficile guarigione”; “Terapia di vita per l’Italia”; “Tutto il potere ai giudici?”, “L’inarrestabile caduta degli dèi”). Quello di Manenti non è da meno.
“Il trasformismo non è affatto un cambio di camicia, bensì il senso profondo dei trapassi di regime in Italia. Quelli della prima repubblica si sono mangiati il futuro con il debito pubblico […], questi si mangiano le immagini del futuro -mangiano letteralmente bambini- e cacano luoghi comuni […]. La fondazione della ‘Seconda repubblica’ è una pièce già giocata: ha una sceneggiatura e un regista, ma ci sono titubanze sul finale. L’Italia è una repubblica fondata sul padrino e sui furbi, dove i furbi non si distinguono dai fessi, se non perché tocca a loro […]. Per esempio, il pensare che ormai la convivenza civile e anche la politica potevano rinunciare alla propaganda, che l’idea di propaganda fosse un ferro vecchio del XX secolo almeno in Europa, si è dimostrato un macroscopico errore […]. Il ‘voltar pagina’ italiano è l’appuntamento di rito con l’Arcitaliano […]. In effetti la questione è quali dimensioni abbia assunto la corruzione nella Prima Repubblica, cioè a quale grado di ovvietà e di protervia sia arrivato il sistema delle dazioni nel pretendere come nell’offrire la provvigione illecita.
La concussione per induzione come ‘coazione psicologica’, la consuetudine ineluttabile, i beneficiari passivi (i superiori parassiti), l’occupazione dello Stato da parte del sistema delle dazioni: tutto questo è precisamente il contesto del fenomeno Berlusconi nella sua origine, ma è anche un peccato originale della Repubblica, fin dal 25 luglio (1943) [nella seconda repubblica, Ndr.] attraverso il bipolarismo italiano si rivede la genesi della Democrazia Cristiana e del suo regime, ma si vede anche perché l’omicidio di Moro fu anche un salto di qualità dentro la Dc. Le due anime (che erano state le due ali della Dc) -la peggiore compromissione sociale che assumeva senza poterla digerire l’eredità del fascismo corporativo, (cioè, una superfetazione di sindacalismo degenere, di regime) e il riflesso di quelle “sette ereticali” della Chiesa che proprio nel “partito dei cattolici” di Sturzo avevano avuto la loro occasione storica -si sono dissolte”.
Nel comico e deprimente nuovo trapasso di regime tornavano i nodi di quello tragico del 1943, dal regime fascista al sistema badogliano, con la fuga del re e dei generali verso Pescara, contrattata con i nazisti in cambio della liberazione di Mussolini recluso al Gran Sasso.

VIII. Dopo i funerali di Langer, Clemente annota: “L’Angelo della Storia di Paul Klee e Walter Benjamin è rivolto al passato, alla montagna di rifiuti e macerie della storia, ma tiene le ali aperte, pronto a spiccare il volo”. Il futuro però non può essere più quello di “quando si pensava di poter dirigere il traffico verso di esso”: “persino le risposte alle domande di ieri sono divenute ancor più difficili”. La generazione dell’anno zero ha esaurito la propria parabola, forse proprio con la morte di Alexander Langer.
“Rompere, ‘tagliare i ponti’ con la propria generazione vuol dire cessare di essere contemporanei di se stessi (ma di chi allora? gli antichi maestri?). Ripudiare la propria generazione è difficile, perché nella generazione si è immersi -a meno di non diventare postumi e stranieri […]. Uno sguardo ‘postumo’ sulla propria generazione è quello dell’artista -difficilmente quello del politico, i politici sono sempre indietro di 400 anni rispetto agli artisti […].
Il bilinguismo di Alex Langer: il b. non è mai perfetto, c’è sempre uno sbilanciamento - il bilinguismo imperfetto di A. L.: in realtà la sua lingua madre è il tedesco e in tedesco racconta l’Italia con molta più padronanza e dunque umorismo e penetrazione di quanto non saprebbe fare all’incontrario. Ma la sua simpatia va all’Italia e il suo amore è equamente diviso, mentre il suo spirito è altrove, nomade, cosmopolita, straniero: […] L’italiano era la sua lingua elettiva, il tedesco la sua lingua madre -di lui nato da madre italiana in Sud Tirolo e da padre medico ebreo viennese. Ne risulta una lingua franca, depurata, una metalingua, attraverso la quale vengono filtrati e raccontati all’una i misfatti e le magagne dell’altra madre, ma anche le sue nobiltà - a ciascuna madre nella sua lingua propria: non una traduzione dello stesso racconto, ma due racconti diversi in due lingue diverse […]. Questa terra di nessuno che è la traduzione, l’ambito proprio della traduzione, è stato il territorio in cui è nato e cresciuto Alex Langer”.
E ancora: “La fede cristiana aveva sostenuto la sua fede civile, anche risentita e orgogliosa, di bambino ebreo (per il padre) e antifascista (per la madre) nel primo borgo del Sud-Tirolo che si incontra venendo dal Brennero. Qui era rimasta aperta una contraddizione toponomastica insanabile tra il fascismo italiano e il nazionalsocialismo pangermanico nella sua incarnazione meridionale, austriaca, cattolica, controriformata (il nazismo è un miasma della decomposizione della Cacania innestato nel robusto corpo tedesco: Hitler è una quintessenza austriaca): In quella Sterzing, in quella Vipiteno […], lui è stato bambino e ha vinto la sua anti-crociata cosmopolita di bambino.
Per uno così, la Bosnia è un banco di prova definitivo, dove si gioca la natura della specie umana e la sua storia (sullo sfondo il Rwanda). In questa luce, la sua è una invocazione e una preghiera, ma anche insieme una maledizione, che lui ha cercato di attenuare con ‘continuate in ciò che è giusto’, ‘io disperatamente mi fermo qui’. Certo, Alex, hai fatto anche troppo, peccato però che un altro angelo sia caduto”.
Infine: “Funerali di Alex: nessuno che dica: hai fatto bene; nessuno che dica: al posto tuo avrei fatto lo stesso. Perché? Non a caso ai suicidi la Chiesa negava il funerale, dovrebbero essere ammessi soltanto i funerali i cui convenuti apertamente, anche se in via ipotetica, approvassero e consentissero con la scelta -o con l’atto- di colui che ‘accompagnano’ […]. Con gli amici morti si comincia finalmente quella frequentazione che con gli amici vivi -proprio perché erano vivi- era stata di continuo rinviata.
Allora, nel momento della esplosione -che si chiamò scioglimento di Lotta Continua- sembrò possibile finalmente individuare e coltivare uno per uno i singoli frammenti di quella esplosione, gli individui ricaduti ciascuno nella propria anagrafe: infatti, fu possibile per un momento, poi ciascuno si è accorto che tra biografia collettiva e anagrafe individuale la contraddizione è ‘inguaribile’. È passato del tempo e questo accorgersi perdura ancora, traendo alimento dal tempo che passa. Così non c’è più tempo né modo per frequentarsi né tanto né poco, se non in occasione di una morte, del funerale, di una piccola esplosione”.