Israele e Palestina: “due stati per due popoli” o “due cittadinanze per due nazioni”?
Alla ripresa del dialogo israelo-palestinese ostano pesantissime ragioni sia di fatto che di principio.
Queste in estrema sintesi le ragioni di fatto: da una parte (e in primis), la violenta occupazione israeliana dei Territori, il costante aumento degli insediamenti di coloni, la progressiva realizzazione di un sistema di infrastrutture che frantuma il già esiguo e diviso territorio dell’ipotetico stato palestinese; dall’altra parte, l’escalation terroristica.
Sulle ragioni di principio -altrettanto importanti, e background dell’attuale disperata situazione- è molto più complicato avere idee chiare. Su queste perciò azzardo qui di seguito una riflessione.
Una legge fondamentale dello stato d’Israele dà diritto a ogni ebreo nel mondo di diventare, oggi o in futuro, cittadino israeliano: cioè, se si deve giudicare dall’esperienza passata, di sottrarre terra, acqua e casa a un suo omologo palestinese. Come si può pretendere che i palestinesi vi consentano? Eppure, questa legge fondamentale è tabù non solo per Israele e per i suoi molti amici nel mondo, bensì anche per molti degli ebrei che in Europa e in America, sotto lo slogan “not in my name”, condannano fermamente la politica antipalestinese di Israele. Di contro, per i molti critici di Israele e amici della causa palestinese nel mondo, la legge del ritorno è totalmente inaccettabile: già nel nome che porta essa rende manifesta la pretesa che un gruppo umano -gli ebrei- sia depositario di diritti speciali sulla base di presupposti mitico-religiosi.
Da nessuna direzione, che mi risulti, vengono proposte di mediazione in merito. Invece una mediazione sarebbe ragionevole. Sarebbe ragionevole da una parte riconoscere che uno stato laico moderno non può fondare le sue leggi sulla Bibbia; dall’altra ammettere che questo stesso stato, nato come patria di un’etnia discriminata e perseguitata, sia aperto a quanti, fra i dispersi rappresentanti di quella stessa etnia, si ritrovino effettivamente perseguitati o discriminati. Non mancherebbero giuristi capaci di riscrivere quella legge in una forma accettabile per tutti (cioè limitativa e laicizzata), se ci fosse volontà di dialogo.
Sull’opposto versante, lo statuto dell’Olp ha molto a lungo previsto la cancellazione di Israele come stato (apotropaicamente riferendovisi come all’ “entità sionista”). Come si poteva pretendere che gli ebrei israeliani vi consentissero? L’Olp ha compiuto il passo di modificare il proprio statuto riconoscendo lo stato di Israele. Ma si è trattato di un passo molto ambiguo, perché non comporta il riconoscimento del carattere ebraico dello stato. “Ebreo” continua ad essere per i palestinesi un termine che denota appartenenza religiosa, non appartenenza nazionale, mentre gli ebrei israeliani si sentono, e dunque sono, una nazione. Quando si parla di “due stati per due popoli” la formula semplificata crea l’illusione di soluzioni a portata di mano; ma l’illusione si dissolve quando diciamo che ci sono due nazioni, gli ebrei israeliani e i palestinesi, una parte dei quali ultimi costituisce una minoranza nazionale all’interno del “popolo israeliano”. Per i palestinesi israeliani si deve pretendere uno statuto di piena parità, come ce l’hanno in Italia i sudtirolesi; ma con questo essi non cesseranno di essere, almeno per molto tempo ancora, un’altra nazione, appunto come i sudtirolesi non si sentono, e quindi non sono, italiani.
L’ambiguità è diventata manifesta quando si è posto come dirimente il problema del rientro dei profughi del ‘48 e dei loro discendenti, che avrebbe azzerato il carattere ebraico dello stato. Neanche in questo caso c’è stata la ricerca di una ragionevole mediazione. Da nessuna delle due parti. Una ragionevole mediazione presuppone da parte palestinese il riconoscimento del fatto che gli ebrei che hanno scelto Israele come patria costituiscono un gruppo nazionale, non un gruppo religioso; mentre da parte ebraico-israeliana presuppone il riconoscimento della verità che oggi la storiografia israeliana non tace più, cioè che i palestinesi sono stati privati con la violenza delle loro case e delle loro terre. Donde l’obbligo per Israele di un’assunzione di responsabilità sul problema dei profughi, obbligo che comporta quanto meno riconoscere il diritto palestinese all’indennizzo. E in una qualche misura anche la disponibilità a discutere di ‘quote’ di rientro.
Quanto s ...[continua]

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