Quando fu assunto all’Einaudi cominciammo a lavorare nella stessa stanza. Francesco leggeva moltissimi libri, non solo di argomento scientifico, e ne riferiva alle riunioni del mercoledì. Era bravissimo anche nel rivedere e correggere traduzioni scadenti o sciatte e spesso mi aiutava. Il ricordo più bello di questo nostro lavoro in comune fu la revisione radicale, quasi un rifacimento, di Lavoro e capitale monopolistico, l’eccellente libro di Harry Braverman che meritava a nostro avviso una traduzione adeguata. Anche la frequentazione amicale che Francesco ebbe, fra gli altri, con Vittorio Foa, Augusto Graziani, Primo Levi e Italo Calvino testimonia della sua cultura, curiosità intellettuale e passione per il dialogo. (Forse non tutti ricordano che Calvino gli dedicò il lungo poscritto di un articolo su “la Repubblica” del settembre 1984: “ho letto sull’ultimo numero di ‘Linea d’ombra’ uno scritto molto bello di Francesco Ciafaloni sulla vita paesana nell’Abruzzo d’oggi”).
Una conferma straordinaria dei suoi talenti fu il ruolo che Francesco ebbe nel 1983-’84. Come rappresentante sindacale della redazione Einaudi, guidò con grande intelligenza e senso di giustizia l’attività del consiglio di azienda nella grave crisi che aveva travolto la casa editrice. Fu lui a ideare, proporre e far accettare la cassa integrazione a rotazione: quindici giorni di lavoro al mese per tutti i dipendenti. Ciò gli valse la fiducia, la stima e la gratitudine dei colleghi, anche di quelli che ancora non lo conoscevano. Fu il suo capolavoro di sindacalista e di uomo giusto. Non solo: ricordo perfettamente che Calvino si consultò a lungo con lui prima di decidere se pubblicare da Einaudi Palomar.
Ci sarebbero tante altre cose da ricordare, come la sua intensa collaborazione ai “Quaderni piacentini”, a “una città”, a “Lo straniero” e a “Gli asini”; o la sua attività nel sindacato. Altri lo faranno. Da ultimo voglio dirvi che la notte fra il 17 e il 18 giugno, poche ore prima che ci lasciasse, ho sognato Francesco. Era venuto con un’auto molto ammaccata a una strana riunione di amici, forse sindacalisti. Stava bene, indossava la sua giacca spinata, parlava come ce lo ricordiamo tutti. Ci siamo salutati affettuosamente, come vecchi amici che non si vedono da molto tempo. Volevo telefonarvi subito per dirvelo, ma il sogno è finito.
Luca Baranelli
Nelle parole di Luca Baranelli ritroviamo il Francesco che tutti noi abbiamo conosciuto in tempi più o meno lontani e che anche per me risalgono alla fine anni Sessanta con il suo arrivo a Torino dove, per aggiungere qualche annotazione personale, ricordo come portò una ventata di concretezza (cifre, percentuali, dati fattuali) nelle discussioni politiche di allora. Ricordo anche come, qualche anno dopo, con la crisi petrolifera, mi impose la lettura di un librone in inglese sull’esaurirsi dei giacimenti perché senza competenze in materia non si poteva parlarne.
Per esperienza e formazione aveva un linguaggio e un approccio ai problemi fuori dagli schemi, rifuggiva dalle chiusure ideologiche delle appartenenze identitarie e autoconsolatorie. Guardava la società dal basso, dalle periferie, dai monti in abbandono dell’Abruzzo dove era cresciuto tra i pastori, per cercare le vie verso un mondo più giusto con la bussola di un universalismo inclusivo (di qui appunto l’accostamento spiazzante -Kant e i pastori- che scelse come titolo alla sua ricca raccolta di scritti autobiografici: mi sorprese all’inizio, quando me ne parlò e me ne stavo occupando per le edizioni Linea d’ombra, ma leggendo i testi capii che era una buona metafora della sua visione politica). Il suo lavoro con il sindacato sulla condizione operaia si estese all’attenzione ai migranti con la pratica dell’inchiesta e l’impegno contro il razzismo. Tanti i ricordi, riemersi in questi giorni, di una lunga freq ...[continua]
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