Uno psicanalista israeliano, Eran Rolnik, in un articolo sul quotidiano liberal “Haaretz”, ha proposto di considerare la necessità e la possibilità che sorga un’altra Israele, dopo questi due anni terribili, dopo il pogrom sanguinoso del 7 ottobre e la guerra spaventosa che è seguita, appena interrotta dal diktat di Trump, ma ancora non risolta. 
In Israele, nei dibattiti degli anni Cinquanta del secolo scorso, per giustificare l’accordo sui risarcimenti tedeschi ai sopravvissuti all’Olocausto in particolare e al popolo ebraico in generale, si è parlato di un’Altra Germania. Un decennio dopo se ne discusse di nuovo intorno alla vendita di armi di produzione tedesca all’esercito d’Israele. Ma nella stessa Germania il concetto apparve già subito dopo la Prima guerra mondiale, come testata di un giornale di Berlino che promuoveva una Germania pacifista, morale e cosciente della propria re­sponsabilità storica. Dopo il 1945 e la sconfitta totale, dimostrò di essere una nazione che aveva superato il nazionalismo estremo, in lutto per le scelte passate e capace di guardarsi con vergogna allo specchio della storia, come disse Thomas Mann. Si può credere che la mutazione sia stata talmente radicale nella Germania dopo il nazismo? 
L’Altra Germania sarebbe sorta sulle macerie della nazione tedesca devastata dai bombardamenti a tappeto degli Alleati, occupata fino alla capitale Berlino, squartata tra le potenze vittoriose, riunita parzialmente e aiutata economicamente a rinnovarsi per contrastare la minaccia comunista e sovietica. Adesso si intravvedono rigurgiti come anche in altri paesi del mondo: forse la rinascita economica e la ricostruzione dalle macerie della guerra sono state troppo rapide, grazie al piano Marshall e alla paura del comunismo, con radici poco profonde nella coscienza civile.
Israele, anche se scossa dal pogrom barbarico del 7 ottobre, colpita dai missili e con mezzo milione di sfollati per molti mesi, non si è trovata distrutta, in cenere e sconfitta. Può dunque avvenire una vera mutazione profonda della società israeliana? Basta il fatto di non aver ottenuto la vittoria totale sui terroristi? Siamo veramente coscienti di essere responsabili della distruzione quasi a tappeto della Striscia di Gaza e delle ferite terribili inflitte alla popolazione palestinese? Molti in Israele rigettano la responsabilità su Hamas, che sacrifica il suo popolo per la guerra santa.
Pur essendo psicologo io stesso, evito in genere di usare modelli psicologici per capire processi storici, sociologici e politici. Rolnik cita un articolo di Freud che distingue tra processo di lutto elaborato per separarsi dalla persona idealizzata ma persa definitamente e processo invece incompiuto, che rende l’oggetto del lutto entità irreale, ingabbiata nella nostra anima, bloccando ogni possibilità di crescita e di sviluppo. Non conosco abbastanza la realtà in Germania per valutare la profondità della mutazione morale e civile; i giovani tedeschi, per lo più,  crescendo tra le rovine della guerra promossa dai loro genitori, avrebbero potuto forse creare una vera Altra Germania. 
Invece la società israeliana sembra appunto bloccata, da vittima eterna, sul crollo di tutte le difese militari e politiche che avrebbero dovuto e potuto impedire gli eventi del 7 ottobre: essa non può analizzarne né le cause né le conseguenze. Dalle ceneri dell’Olocausto gli ebrei in genere e gli israeliani in particolare uscirono con un processo di rinascita personale e di creazione di una società vitale e in continuo sviluppo. Dal pogrom di due anni fa sembra invece che Israele non riesca a risollevarsi, proprio perché non è disposta a completare il processo di lutto e separarsi definitivamente dalle aspirazioni messianiche e imperialiste che l’hanno condotta dalla guerra lampo del 1967 fino alla batosta, morale e militare, a Gaza.
Dopo l’Olocausto la responsabilità non poteva essere condivisa dalle vittime inermi. Mentre Israele, massima potenza del Medioriente, dovrebbe confrontarsi con la responsabilità, per lo meno parziale, con quanto ha portato alla strage fatta da Hamas e alla guerra di vendetta israeliana. L’assenza di presa di responsabilità comincia dalla leadership, che continua a sfruttare una coalizione precaria e rifiuta persino una commissione d’inchiesta. Anche l’opposizione e la maggioranza della popolazione non osano guardarsi allo specchio dei decenni di suprematismo ebraico sulla popolazione palestinese. Solo pochi hanno preso coscienza delle conseguenze della guerra genocidiaria condotta anche in nome loro e vorrebbero promuovere un’Altra Israele. Le foto vengono quasi nascoste dai media locali, mentre i bambini di Gaza cercano di sopravvivere tra le macerie. Sono queste nuove generazioni di palestinesi che dovrebbero, crescendo, rifiutare di essere sfruttate e sacrificate per il fanatismo islamico. Invece cresceranno nell’odio verso il nemico israeliano, con cui hanno in comune l’incapacità di credere in una possibile co-esistenza.
Tale coesistenza potrebbe forse diventare credibile soltanto, appunto, con un rapido sviluppo civile ed economico, del tipo del Piano Marshall, promosso e finanziato dagli Stati Uniti e dai paesi arabi. Queste proposte sono ostacolate da Israele, che non vuole nessuna partecipazione dell’Autorità palestinese nell’amministrazione della Striscia. Ciò contrasterebbe le manovre disgregative israeliane in Cisgiordania, contro la possibilità stessa di un’entità nazionale palestinese. Molti, infatti, in Israele, anche tra chi non sostiene l’espansione coloniale nei territori occupati, sono convinti che il terrorismo islamico s’impadronirebbe di questa entità nazionale palestinese e ne farebbe una base pericolosissima per l’esistenza stessa di Israele. Pochi credono, come me, che solo uno sviluppo economico e nazionale palestinese potrebbe ridurre il pericolo del fanatismo islamico.
Il piano Marshall a suo tempo ha avuto un successo incredibile, grazie alla paura dell’Occidente di fronte al pericolo comunista. In Europa, ma anche qui in Medioriente, tutti temono l’estremismo islamico: questo è sfruttato dal populismo etnocentrico (come a suo tempo la xenofobia contro gli ebrei), generalizzando lo stigma su tutta la popolazione, palestinese, araba e mussulmana. Si potrebbe invece creare una coalizione internazionale, inclusi i paesi arabi e musulmani, contro il pericolo del terrorismo e del fanatismo jihadista, che è sostenuto direttamente solo dall’Iran, e indirettamente dalla Cina e dalla Russia, pur minacciate anch’esse dallo stesso pericolo. Israele accusa anche il Qatar e la Turchia di appoggiare il terrore islamico, ma io credo che la situazione sarebbe diversa se il conflitto con i palestinesi si avviasse verso una soluzione pacifica. In Israele dovremmo cioè rinunciare alle aspirazioni coloniali, messianiche e suprematiste e in Europa si dovrebbe abbandonare la xenofobia rivolta adesso contro tutti gli immigranti arabi, musulmani o neri.
L’alternativa dovrebbe dunque essere un piano Marshall internazionale per lo sviluppo economico e civile, non di tipo neo-capitalista, e per la stabilizzazione del potere centrale delle nazioni da cui vengono i profughi, assieme a una coalizione contro i movimenti terroristici e fanatici, che minacciano la sicurezza sia nel mondo arabo che in Europa. Anche in Israele, tra ebrei e palestinesi; anche in Europa, tra europei e musulmani, si potrebbe ottenere maggiore cooperazione costruttiva, rinunciando al suprematismo etnico o religioso, e fondando le relazioni sulla giustizia sociale e sul rispetto reciproco.
Ma questa è appunto l’origine del circolo vizioso, da cui è così difficile uscire, per lo meno visto da Israele: senza rinunciare al suprematismo non si può creare la coalizione, senza la coalizione non si può combattere il terrore, senza combattere il terrore non si può ridurre la xenofobia, senza ridurre la xenofobia non si può piegare il suprematismo, e così da capo.
Dunque un’Altra Israele, purtroppo, sarà poco probabile nel prossimo futuro: non ci auguriamo certo -per carità!- una batosta più grave, più diretta e più completa di quella attuale. 
Noi di sinistra la crediamo dovuta, appunto in gran parte, alla politica estremista del governo israeliano. Mentre molti, purtroppo, nella sinistra europea e adesso anche americana vogliono deligittimare l’esistenza stessa dello stato degli ebrei, nel senso che neppure il sorgere di quest’Altra Israele potrebbe giustificarne il diritto di autodeterminazione, quello richiesto giustamente per i palestinesi. Israele reagisce a questa deligittimazione con accuse di antisemitismo più o meno latente, sotto le vesti dell’antisionismo, proprio da parte della sinistra. Il governo di estrema destra in Israele trova rifugio nelle destre mondiali, razziste e xenofobe, che appoggiano Israele come avamposto contro l’Islam, pur coltivando i peggiori germi di un vero antisemitismo. Mentre un’Altra Israele dovrebbe rinnovare l’intesa con la tradizione liberale, e con i valori umanistici universali: solo questi hanno reso possibile l’emancipazione degli ebrei dalla discriminazione e dalle persecuzioni.