Sami Adwan
Credo di poter dire, anche a nome del mio collega Dan, che siamo veramente felici di essere stati invitati qui e siamo onorati di ricevere il Premio Alexander Langer dell’edizione 2001.
Avrei preferito che fossimo stati invitati prima del settembre 2000, per potervi parlare delle buone cose a cui ci eravamo dedicati, per infondervi un senso di fiducia su come la cooperazione può portare pace e comprensione, anche a livello individuale, personale, familiare, di comunità.
E’ infatti un peccato che la situazione, da settembre 2000, si sia deteriorata a un punto che non era stato previsto in alcun modo, ad alcun livello.
Da quando era stato firmato Oslo, nel 1993, ci sentivamo così vicini, così legati dall’impegno per la pace, come due entità che si stavano per unire.
Sfortunatamente, questa cosiddetta “era di pace”, iniziata appunto nel 1993, sembra essere finita. La gente ha smesso di avere fiducia e speranza in un futuro migliore. E questo è risultato insopportabile per tutta la gente che ha dedicato tanto tempo e sforzi ed energie per mantenere quella piccola speranza, anche in un momento cruciale e buio, come quello che stiamo attraversando.
Naturalmente, non è facile mantenere la speranza in questo conflitto, anche perché parliamo di un conflitto sanguinoso. Mantenere la forza per continuare a credere in se stessi è una grande sfida. E allora è fondamentale per gente come noi non smettere di incontrarsi e parlare. Il periodo di pace tra il 1993 e lo scorso anno ci è servito per svelare i nostri volti, come appartenenti a esseri umani, a persone, con un nome, delle speranze, una vita familiare. Ecco, purtroppo ora è forte la tentazione di far scomparire queste immagini, questi visi così faticosamente scoperti. E io stesso tante volte mi sono trovato a combattere per mantenere impressa l’immagine dei miei amici israeliani, come volti umani.
La lotta, ma anche la paura di perdere le immagini conquistate, sta diventando dolorosa per me, per la mia famiglia e i miei figli. Perché la mia famiglia è anch’essa pesantemente coinvolta in ciò che faccio personalmente.
Noi abbiamo degli incontri, degli scambi con Dan, e allora ogni visita, ogni viaggio che facciamo insieme, gli incontri a cui partecipiamo, vedono sempre anche il coinvolgimento delle nostre famiglie. Eppure questo tipo di relazioni, che deve essere coltivato e sostenuto dalla speranza, è fondamentale anche nei momenti più difficili del conflitto.
Sfortunatamente quello israeliano-palestinese è un conflitto che si protrae da tempo. E questo rende ancora più difficoltosa la ricerca di una pace.
Naturalmente questa è una sfida anche per i peace-makers, i politici. Dopo la firma degli accordi di Oslo noi abbiamo assunto delle iniziative, abbiamo cominciato a lavorare a un progetto, cercando di raccogliere della gente, di metterla assieme, a raccontare le proprie storie, a condividere le esperienze, portando avanti una ricerca, ma soprattutto promuovendo un dialogo. E parliamo di un dialogo che certo non è stato facile perché ci ha fatto scoprire che noi abbiamo così tanto da condividere, ma anche così tanto che invece non condividiamo, e che dobbiamo quindi cercare di comunicare per farci capire.
Dal 1993 sono stati avviati molti progetti, ci sono tante Ong che lavorano per la costruzione della pace; alcune hanno forme di cooperazione con altre Ong, altre invece si basano sui rapporti tra persone delle due parti.
Come Prime (Peace Research Institute for the Middle East) abbiamo pensato che il modo migliore per realizzare la nostra cooperazione sarebbe stata la costruzione di un’istituzione equamente condivisa e partecipata.
Ci sono molti progetti che stanno andando avanti, qui e là. Sfortunatamente questi progetti non sono stati seguiti da un progresso nell’ambito dei discorsi politici, a livello dei leader. Se guardiamo indietro, dal 1993, fino al settembre 2000, vediamo quasi solo accordi dopo accordi, dopo accordi, e fallimenti dopo fallimenti…
Ed è così che siamo arrivati a questo settembre 2000, quando il conflitto è ripreso e ha proseguito in questi mesi in un’escalation di violenza ed esasperazione. Gli accordi politici dovrebbero invece appoggiare sul terreno il processo di pace in corso. Perché il processo di pace ha maggiore influenza e ...[continua]
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