Potocari è un sobborgo di Srebrenica, adagiato nel fondovalle, fra due file di colline. La strada, diritta, costeggia a destra il Memoriale del genocidio di dodici anni fa: 8370 nomi incisi nel marmo e oltre 2800 tombe tutte uguali, una stele bianca per ognuna, destinate a diventare sempre più numerose man mano che le analisi del Dna consentiranno di riconoscere i resti estratti dalle fosse comuni e ora in attesa nei depositi frigoriferi. A sinistra sorge la vecchia fabbrica di accumulatori, sede del contingente Onu olandese che capitolò con disonore di fronte a Mladic e consegnò alle milizie paramilitari serbe una popolazione terrorizzata, rendendo possibile lo sterminio di tutti gli uomini dai 13 ai 77 anni e la deportazione fra mille violenze di donne, vecchi e bambini. La presenza di quel complesso industriale, con i suoi fabbricati bassi e le tubature scoperte, è lì a certificare che la strage è stata l’ennesimo frutto maligno della nostra epoca.
Come per altri paesi della Bosnia, anche qui la casa dei morti è dunque molto più grande di quella dei vivi; ora Srebrenica conta forse meno di 5000 abitanti, dei 37.000 di prima della guerra. Per arrivarci da Potocari si prosegue in leggera salita lungo la valle sempre più stretta. Molte le case abbandonate e senza serramenti. Quando arrivi in città -un agglomerato che si estende in lunghezza ai due lati della via principale- più si infittiscono le costruzioni, più si fa forte il senso di abbandono. Non bastano a colmare quel vuoto che prende allo stomaco il supermercato nuovo di zecca costruito in un primo slargo o i fiori accuratamente disposti sui balconi di alcune delle casette costruite al tempo in cui la città era un rinomato centro termale.
I segni degli spari sono un po’ dappertutto; anche diversi condomìni appaiono gravemente danneggiati. La gente è poca: soprattutto anziani e un numero irrisorio di bambini. Rari i negozi; il luogo meno deserto, in una città dove non c’è lavoro, sembrano essere i caffè. Indecifrabile è lo sguardo delle persone. Ti chiedi come sia possibile continuare a vivere nello stesso luogo dove ti sono stati portati via il marito, il padre o i tuoi figli; per una popolazione mussulmana costretta oramai ad essere minoranza in una città che gli accordi di Dayton hanno attribuito alla Repubblica Srpska, quasi a sancire la vittoria di chi ha commesso il genocidio; per tante donne la cui solitudine è avvelenata dalla presenza palpabile di chi allora ha ucciso, stuprato o è stato complice degli assassini. E’ come se il desolante paesaggio urbano di un luogo aspramente diviso risuonasse ad ogni angolo di due note sorde e dissonanti: quella di un dolore inestirpabile e, sull’altro fronte, quella dell’omertà.
Una scommessa
Come dare sollievo a quel dolore? Come aprire uno spiraglio in quella realtà senza sbocchi? Forse è impossibile o forse non è ancora il momento. O invece attendere altro tempo può rendere tutto più difficile perché il trauma, se lasciato a se stesso, finisce soltanto per aliment ...[continua]
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