Un’anziana signora arriva poco dopo trasportata in macchina dalla figlia: "Vengo da L’Aquila, mi sento male”. Elettrocardiogramma, rilevazione della pressione arteriosa, del glucosio nel sangue. Mi dice come per rimproverarsi: "Abbiamo perso tutto ed io mi sento male” mentre sfila la camicia.
Siamo a due mesi dalla grande scossa del 6 aprile. Qualcosa è cambiato.
Il senso è quello di una difficoltà, se non impossibilità, a liberarsi da un pensiero ossessivo che è fatto un po’ di paura per le ultime scosse, un po’ di diffidenza per chi promette miracoli, un po’ di disperazione perché il futuro non ha nulla di buono per chi ha perso la casa.
I media fanno a gara per raccontare d’un desiderio di ricostruire ed anche d’una speranza che sarebbero diffusi tra la gente. Semplicemente non è così.
Adesso, a due mesi dal sisma, finalmente tutti sappiamo cosa è successo quella terribile notte e tutti sappiamo che non ci saranno miracoli.
Intervengo con l’ambulanza del 118 presso una casa di cura per anziani sulla riviera di Montesilvano. Siamo vicini ai Grandi Alberghi, così chiamano da queste parti gli ecomostri multipiano costruiti sulla spiaggia e destinati agli sfollati ancora per un po’. Anche qui ci sono anziani provenienti da L’Aquila: una signora in vestaglia rosa mi saluta dal balcone, un vecchio rattrappito su una carrozzella mi guarda senza capire cosa gli stia accadendo intorno.
Ricordo di aver accolto in aeroporto un aereo militare che trasportava da L’Aquila anziani ricoverati negli ospizi della provincia ed affetti da demenza senile. Qualcuno è stato portato qui evidentemente.
Ho il presentimento che lontano dall’Abruzzo sia davvero difficile rendersi conto di quanto è accaduto.
Immagina: una distruzione che viene di notte e butta giù tutto, case e persone; di ritrovarti in strada, senza nulla, al freddo, senza sapere dove andare; di non sapere cosa sia successo ai tuoi figli, ai tuoi parenti, ai tuoi amici, al tuo cane. Immagina: di non crederci, di pensare che sia un brutto sogno, di aspettare l’immediato risveglio. Immagina: di non svegliarti affatto e di sentirti gravato da un pesante blob di disperazione.
La vita nelle tendopoli è ormai insopportabile, "Non è vita!” dicono alcuni ragazzi iscritti ad ingegneria che non c’è più. "Con internet sarebbe diverso...”. Forse.
La verità è che i campi sono stati trasformati, con una ragionata gradualità, in luoghi chiusi e molto controllati.
Gira voce della presenza di servizi segreti, di telefoni sotto controllo. Voci...
Quello che si tocca con mano è la moltiplicazione delle forze dell’ordine a presidiare cancelli, ingressi ed uscite, tende, strade, zone rosse, edifici pericolanti.
Ti fermano continuamente: "Dove va? Chi è lei?”, "Sono un infermiere volontario, lavoro qui da tempo”, "Ha il pass?”, "L’ho lasciato in ambulatorio, è dentro il campo, glielo porto subito”, "Lei non va da nessuna parte senza il pass”, "...ma io ce l’ho il pass!”, "Me lo mostri... lei non entra senza pass”. Può capitarti tre o quattro volte al giorno di avere uno scambio così demenziale con i guardiani di turno e finisce che chiami il collega in ambulatorio e gli chiedi di portarti fuori il pass "... che c’è uno qui che non sente ragioni. Merda!”.
L’esercito schierato a controllare le tendopoli è composto da Carabinieri, Polizia, Guarda di Finanza, Protezione Civile, Esercito. E’ gente armata ed abbastanza triste: alcuni hanno il broncio, sembrano arrabbiati ed altri, indifferenti, non ti degnano neanche di uno sguardo. Ti senti un po’ in colpa. E di cosa? Non lo so, nessuno lo sa ma così è. Penso: se tu fossi un ladro, uno sciacallo, un profittatore, forse ti guarderebbero allo stesso modo. Forse.
La motivazione di questo delirio securitario è il prossimo svolgimento del G8 a L’Aquila.
Dicono che i telefoni siano sotto controllo. Fabio che è residente al campo di Fossa e presta lavoro volontario nel magazzino, viene fotografato da un uomo con il cellulare e per questo lo avvicina, lo incalza e gli chiede il perché della foto ma l’uomo taglia la corda biascicando paro ...[continua]
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