Alcuni numeri per partire
L’Università pubblica spende, ogni anno, circa 13 miliardi (2007), cioè qualcosa come 7.200 euro per ciascuno degli 1,8 milioni di studenti iscritti: un "pro-capite” che pone l’Italia in coda tra i paesi occidentali. Ma si tratta di un’illusione statistica: in parte per l’alto numero di studenti "fuori corso” (760 mila circa), e in parte perché una buona quota di studenti (tra un quarto e un quinto) è "inattiva”, cioè non ha superato esami nell’anno accademico precedente. I "veri” studenti universitari, quelli attivi, impegnati a tempo pieno e con ragionevole profitto negli studi, sono molti meno degli apparenti 1,8 milioni: diciamo che potrebbero essere la metà o poco più. Questo porta la spesa per studente effettivo a 13-14 mila euro/anno, in linea quindi con i nostri principali partner europei.
Si può obiettare che occorrerebbe spendere di più, visto che gli italiani hanno un grado medio d’istruzione terziaria più basso di quello di altri paesi di pari sviluppo. Ma questo è vero solo per lo "stock”, perché le generazioni oltre la mezza età hanno studiato meno a lungo: le nuove generazioni (che formano il flusso delle immatricolazioni) hanno ormai proporzioni d’ingresso nell’università equivalenti a quelle di altri paesi europei. I problemi semmai sono altri. Uno è costituito dall’alta quota di abbandoni: secondo i calcoli dell’Oecd -che ha utilizzato una metodologia standard a fini di comparazione tra paesi- la proporzione degli immatricolati che completano gli studi universitari era (2007) pari al 45% in Italia, contro il 56% negli Stati Uniti, il 64% in Francia, il 77% in Germania, il 79% nel Regno Unito e il 69% nella media dell’Unione. In nessun altro grande paese la frequenza degli abbandoni (strettamente collegata a quella dei "fuoricorso” e degli "inattivi”) è alta come da noi.
Non è buono, né sano,
lo "slow food” intellettuale
Un altro elemento certamente negativo è costituito dalla lunga durata del percorso universitario. Le stime del Cnvsu dicono che la durata effettiva del percorso di laurea triennale si sta allungando man mano che il sistema entra a regime: era di 4,2 anni nel 2005, cresciuti a 4,7 nel 2008; nel 2005 i laureati con 3 o più anni di ritardo erano il 13%, nel 2008 il 26%. Non abbiamo dati sulla durata effettiva impiegata da quei tre quarti (o quattro quinti) di laureati che accedono alla laurea specialistica, ma che impieghino almeno tre anni per un percorso di due è una stima prudente.
Occorre aggiungere che, in Italia, l’età canonica al conseguimento del diploma secondario è di circa un anno più alta rispetto alla media europea e che l’età media all’iscrizione all’università eccede 20 anni. E’ quindi normale che il neo-laureato di primo livello abbia 25 anni e quello di secondo livello ne abbia 28.
Ma lo "slow food” intellettuale non giova né agli studenti né al paese, per almeno tre ragioni. La prima, generale, è che la lunghezza esagerata dei processi formativi è una componente importante di quella "sindrome del ritardo” che rallenta la transizione dei giovani italiani verso l’età adulta e la piena autonomia: lavoro, costituzione della famiglia, ecc. (vedi, ad esempio, Elisabetta Santarelli e Francesco Cottone, Italiani bamboccioni: fino a quando?).
La seconda ragione attiene alla scarsa valutazione che il mercato sembra dare ai nostri laureati, comprovata dai modesti vantaggi economici della laurea. Per i giovani uomini italiani (25-34 anni) i guadagni di chi ha la laurea, fatti uguali a 100 i guadagni di chi ha conseguito solo il diploma superiore, sono pari a 130, contro 138 in Francia, 140 nel Regno Unito, 148 in Germania, 165 negli Stati Uniti - e i divari sono considerevolmente più ampi per le donne.
Infine, terza ragione, si può sostenere che la "regolarità” degli studi è una componente della qualità dell’apprendimento che, se troppo prolungato, rischia l’obsolescenza (vedi anche il video "shift happens”).
Proposta: un "voucher” per ogni st ...[continua]
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