La buona notizia è che finalmente gli aerei atterrano a Baku ad orari ragionevoli, come nelle altre capitali europee, senza dover passare la notte in bianco. La cattiva notizia è che Baku rimane, comunque, alla periferia del vecchio continente con distanze inalterate sia, ovviamente, dal punto di vista fisico che, soprattutto, da quello politico, sociale e culturale. Come per i nuovi capoluoghi dei Balcani, l’aeroporto di Vienna ospita un terminale interamente dedicato ai collegamenti con le località di quello che era una volta lo spazio sovietico. Alcune sono assurte a loro volta al rango di capitali, altre -qualcuna di queste a me quasi sconosciuta- si affacciano sulla rete continentale forti di un tessuto economico che comincia a rivestire un certo interesse per i circuiti europei. E gli slot di partenza sono assegnati in base al peso ed al rango dei paesi o delle regioni che rappresentano. Il fatto che oggi si arrivi a Baku nel tardo pomeriggio, e non nel cuore della notte come in precedenza, è indice del riguardo che le autorità aeroportuali viennesi prestano all’Azerbaijan, la cui importanza ha scalato rapidamente le classifiche economiche del continente. Le raffiche di vento che scuotono l’apparecchio sono il tradizionale biglietto da visita della capitale azera che questa volta, sotto la cortina di nubi, si presenta ai miei occhi rivestita di una inusuale, sottile coltre bianca di neve. Nonostante le avverse condizioni atmosferiche i pozzi di petrolio dei campi che costeggiano la strada che collega l’aeroporto alla città funzionano a pieno regime con l’asta delle pompe che oscilla ininterrottamente per risucchiare dal sottosuolo l’oro nero su cui galleggia il paese.
Nelle istituzioni europee ormai si è consolidata l’abitudine di trattare l’Azerbaijan in coppia con l’Armenia. Nonostante il cessate-il-fuoco i due paesi sono formalmente ancora in guerra, determinando gli equilibri geopolitici dell’intera regione. L’Unione europea si sforza di mantenere un atteggiamento super-partes barcamenandosi tra vacue dichiarazioni di circostanza e incoraggiamenti ipocriti che la rendono, spesso, ridicola e superflua agli occhi di entrambe le parti. Nel maggio del 2009 la diplomazia di Bruxelles lanciò a Praga il progetto di "Partenariato Orientale” con l’obiettivo di agganciare le sei repubbliche europee dell’ex Unione Sovietica al processo di integrazione del continente. Nei documenti sottoscritti all’epoca, i partner si impegnavano a riprendere la cooperazione regionale, a sviluppare relazioni di buon vicinato e a rinunciare all’uso della forza nella risoluzione dei conflitti. Fra Azerbaijan e Armenia, però, la frontiera continua a essere sigillata, non esistono scambi bilaterali e la linea di separazione tra i due eserciti si riattizza periodicamente sotto il fuoco incrociato dei cecchini. I negoziati dei nuovi accordi che Bruxelles è pronta a siglare con i due paesi procedono in parallelo in uno forzo di "correttezza politica” volto a mostrare un’equidistanza che nasconde, in realtà, l’incapacità dell’Unione di giocare un ruolo significativo nel dialogo fra le parti.
"Non è la Bielorussia”: così gli ambasciatori del Consiglio di Europa e dell’Osce ci accolgono per la prevista colazione di lavoro nell’elegante sala del Design hotel che ci ospita, collocato nei piani alti di un grattacielo del centro.
Più che un’innocua dichiarazione d’esordio suona come un lapsus freudiano perché anche il semplice paragone al regime dittatoriale di Lukashenko di per sé rappresenta l’unità di misura con cui gli euroburocrati valutano l’Azerbaijan.
Non è certo un buon viatico iniziare i colloqui con un simile ingombro, ma la realtà non lascia spazio ad alcuna discrezionalità di interpretazione. "La costituzione è buona, il problema, però, è la sua applicazione”, attacca l’ambasciatore Gerokostopolus. "I giornali sono abbastanza liberi ma poco diffusi, non così le televisioni completamente controllate dal governo o da società di comodo prossime a questo”, gli fa eco il collega Targay. "Anche per le organizzazioni non governative la vita è molto difficile, con complicate procedure burocratiche di registrazione che le rendono spesso soggette al ritiro della licenza -concordano i nostri interlocutori- e alcuni esponenti dell’opposizione rimangono agli arresti”. Sarebbero una sessantina i dissidenti in carcere.
Da qualche mese la diplomazia azera si trova in rotta di collisione con l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa al cui Rappresentante Speciale per i prigionieri politici le autorità di Baku hanno negato il visto di ingresso. Per il governo azero, infatti, la sua visita ha il sapore di provocazione visto che nel paese, secondo i criteri vigenti, non esiste alcuna persona incarcerata per reati di opinione. Le associazioni dei diritti umani denunciano la classica strategia di trasformare prigionieri politici in delinquenti comuni imputando loro delitti o reati che nulla hanno a che vedere con la loro militanza politica. È il caso, per esempio, di Emin Milli e Adnan Hhajizade, due bloggers arrestati per una presunta rissa in un caffè della capitale dopo avere pubblicato un video satirico sulla corruzione in Azerbaijan. Condannati a due anni di detenzione i due giovani attivisti sono stati rilasciati nel novembre del 2010 grazie anche all’interessamento del Parlamento Europeo.
Non è più la città che conoscevo. Pensavo che a Baku non avessi più nulla da scoprire, ma mi sono sbagliato clamorosamente. A poco più di sei anni dalla mia ultima visita la capitale azera presenta un volto completamente diverso. Il lungomare è rimasto intatto, anche se i giardini e le aiuole appaiono più curati, così come la città vecchia che riposa tra le sue mura oggi accuratamente illuminate. È il profilo di Baku, che dalle alture circostanti si proietta nella baia, a essere radicalmente mutato con ardite costruzioni dalle forme spesso stravaganti che si slanciano verso il cielo alterando irrimediabilmente lo skyline a me, un tempo, famigliare. Interi quartieri del centro sono transennati. Sbirciando tra le lamiere, dove una volta c’erano le case popolari dell’epoca sovietica, si intravedono le voragini in fondo alle quali gli operai edili gettano fiumi di cemento armato per le fondamenta dei nuovi grattacieli che daranno lustro a un paese incamminato verso l’età dell’oro dopo il primo periodo traballante di indipendenza di inizio anni 90. Un conto è inventarsi dal nulla una capitale, come hanno fatto dall’altra parte del Mar Caspio, in Kazakistan con Astana, e in Turkmenistan con Ashgabat, un altro è rifare una metropoli con più di due milioni di abitanti dalla pianta e dalle linee di sviluppo urbanistico ormai definite. Devo mettermi il cuore in pace e acquistare una nuova guida, visto che quella in mio possesso, anche se abbastanza recente, risulta ormai inadeguata.
Le mie banconote sono fuori circolazione. Lo apprendo con sorpresa dalla gentile signorina alla reception dell’hotel. Ai manat "leggeri” dell’ultima volta sono subentrati quelli "pesanti” a cui sono stati tolti gli ultimi tre zeri. Iperinflazione e incertezze economiche per alcuni sono solo un ricordo, in particolare per la classe più agiata del paese. Non così per le fasce più basse della popolazione la cui vita, lontano dai fasti della capitale, continua ad essere abbastanza grama. Gli idrocarburi rappresentano il 90% dell’export azero e più della metà degli introiti di bilancio. La "maledizione del petrolio” si associa alla "sindrome olandese”: il massiccio afflusso di dollari ha, di fatto, appiattito l’economia del paese rendendo superfluo e non competitivo lo sviluppo di qualsiasi altra attività con l’oligarchia concentrata ad assicurarsi il controllo delle rendite in assenza di un efficace sistema di controlli. Fioriscono, così, i sussidi ad alcune categorie, trasformate in un fitto reticolo di compiacenti clientele, mentre si gonfiano i conti nelle banche estere delle famiglie al potere. Invece di incrementare lo sviluppo sociale e diversificare l’economia, grazie all’apprezzamento della valuta locale si privilegiano i consumi di beni di lusso, assurti a status-symbol, e si dilatano le spese militari e delle forze di sicurezza, preziose alleate in caso di improvvisi rovesci. Ho perso il conto delle boutique griffate lungo i viali che si affacciano al mare sotto l’occhio vigile e non troppo discreto dei poliziotti. Anche da queste parti, con la primavera araba, qualche centinaio di persone aveva osato sfidare il regime in piazza con scarsa fortuna. Per evitare inconvenienti, però, le autorità cittadine hanno pensato bene di vietare qualsiasi manifestazione negli spazi del centro limitando le autorizzazioni solo alle zone periferiche della capitale.
La residenza del presidente della repubblica si trova ad una ventina di chilometri da Baku. La si raggiunge percorrendo ampi boulevard dal traffico via via più scorrevole, affiancati da quartieri di recente urbanizzazione protetti da muraglie. Quello azero è un regime dinastico. L’attuale presidente Ilham Aliyev, infatti, è il figlio di Heydar Aliyev, il primo presidente dell’Azerbaijan indipendente nonché ex segretario locale del Pcus, il partito comunista dell’epoca sovietica. Eletto nel 2003 e confermato in carica nel 2008 con elezioni la cui regolarità è stata messa fortemente in dubbio dagli organismi di controllo internazionali, Ilham ha saputo consolidare il suo potere e acquisire un discreto prestigio agli occhi della popolazione grazie anche al boom economico che ha accompagnato gli anni recenti. Un parlamento compiacente, succube dei clan al potere, ha rimosso nel 2009 la norma costituzionale che impediva la rielezione di un presidente per tre mandati consecutivi spianando, di fatto, la strada alla riconferma di Aliyev alle presidenziali del prossimo anno e, salvo colpi di stato o rivoluzioni, a quelle degli anni a venire. Più cresce il peso internazionale di un paese, più aumentano i vincoli protocollari delle udienze accordate, adesso, con parsimonia per un leader corteggiato e sfuggente che non fa mistero della sua accresciuta reputazione. Ricordo quando l’incontrai la prima volta appena insediato. Tono sommesso e incerto, frasi stringate recitate, dichiarazioni di facciata che non lasciavano spazio a divagazioni. Oggi si muove con abilità da un argomento all’altro, in un inglese discreto, concedendosi digressioni e valutazioni che esulano dal mandato. "Le relazioni con l’Unione europea sono positive, la cooperazione migliora”, esordisce dall’altro lato del grande tavolo dopo la rituale stretta di mano con tutti i presenti allineati di fianco alla porta di ingresso della sala, "l’Azerbaijan può essere un partner molto affidabile”. Va sottolineato, a questo proposito, che nel gennaio del 2011 il presidente della Commissione europea Barroso in visita a Baku ha sottoscritto con il presidente azero una dichiarazione comune che impegna le parti allo sviluppo operativo nel più breve tempo possibile del Corridoio Meridionale, considerato strategico per la sicurezza energetica dei paesi dell’Unione. Questo corridoio dovrebbe, in particolare, ospitare il Nabucco, il gasdotto promosso da un consorzio europeo deputato al trasporto del metano del Caspio verso il vecchio continente. Da una decina di anni i promotori della nuova infrastruttura bussano alle porte dei governi e delle compagnie pubbliche per ottenere finanziamenti e crediti, ma, nonostante la priorità accordata dai vertici di Bruxelles, il progetto incontra continue difficoltà nel passare dalla fase teorica a quella pratica. Uno degli ostacoli maggiori, a detta degli osservatori, è la mancanza fra i componenti del consorzio di un paese produttore di metano in grado di garantire la continuità dei rifornimenti e quindi la sostenibilità economica dell’operazione. L’Azerbaijan, in questo senso, gioca un ruolo chiave, ma è riluttante a impegnare quote consistenti del proprio gas in un mercato in continua evoluzione in grado di offrire migliori profitti con altre opzioni. Il business, infatti, oltre alla produzione degli idrocarburi, si è spostato anche alla proprietà delle infrastrutture di trasporto.
È quello, ad esempio, che sta facendo Gazprom, la potente public company russa, proiettata all’acquisto totale o parziale delle pipeline dei paesi vicini, Bielorussia e Ucraina in testa, attraverso i quali transita buona parte del metano destinato ai paesi dell’Unione. La stessa Gazprom, preoccupata della potenziale concorrenza del Nabucco, con l’italiana Eni ha dato vita al progetto "South Stream” con un gasdotto alternativo lungo lo stesso Corridoio Meridionale. Il presidente Aliyev non fa mistero delle sue perplessità nei confronti delle proposte europee . "Le chance del progetto Nabucco sono, oggi, molto poche -afferma- dopo dieci anni di discussioni siamo ancora fermi al quesito se occorre avere prima il gas o il gasdotto”. Nella fitta rete di pipeline e interconnettori in pectore che affollano il Caucaso del sud, infatti, da qualche mese si è inserito anche il Gasdotto Trans-Anatolico (Tanap) finanziato con capitali azeri all’80% e turchi al 20% con un potenziale di trasporto pari a 30 miliardi di metri cubi di gas all’anno. "Il Tanap, che collega l’Azerbaijan alla Bulgaria passando attraverso la Turchia, al contrario di South Stream viene incontro alle esigenze dell’Unione di diversificare le fonti di approvvigionamento -sostiene il presidenze azero- poggia su un giacimento di gas naturale sicuro come quello di Shah Deniz e sarà garantito da un accordo bilaterale vincolante dal punto di vista legale”.
L’incontro con il capo di stato, che secondo il protocollo non doveva superare la durata di un’ora, scivola amichevolmente oltre la scadenza prevista con uno scambio di vedute con gli ospiti sulla situazione internazionale e la geopolitica della regione. Ad Aliyev non va giù, ad esempio, il modo con cui i media europei trattano il suo paese.
"C’è una campagna in atto mirante a gettare discredito sull’Azerbaijan, da noi non esistono prigionieri politici -replica infastidito- non è possibile assimilare comportamenti violenti a reati di opinione come fa la stampa occidentale”. Per quanto riguarda il vicino Iran "le relazioni sono come quelle fra un moderno stato laico ed uno stato islamico”, afferma preoccupato, sottolineando di temere che, nel caso precipiti la crisi con gli Stati Uniti e gli alleati, "centinaia di migliaia di persone della minoranza azera potrebbero affluire alle frontiere dell’Azerbaijan mettendo a serio rischio la stabilità del mio paese”. Inevitabile, infine, che il discorso si sposti sul conflitto in Nagorno-Karabakh. "La Russia, in pratica, è diventata l’unico mediatore fra le due parti mettendo ai margini sia gli Usa che gli europei -osserva Aliyev- e questo non va bene perché storicamente e tradizionalmente Mosca è il miglior alleato di Erevan. Gli ultimi incontri si sono conclusi con dichiarazioni di cortesia senza affrontare le questioni sostanziali”. Il presidente azero non manca di far notare come l’Armenia si trovi in difficoltà economiche, vittima di un crescente isolamento nella regione che provoca un forte incremento dell’emigrazione. Aliyev auspica una partecipazione più attiva dei partner europei al processo di pace, ma l’Unione recalcitra paralizzata al suo interno e rassegnata a un ruolo di secondo piano. Le foto di rito tra gli stucchi e gli imponenti lampadari del salone presidenziale concludono la visita, mentre il freddo vento del Caspio ci riporta tra i comuni mortali di una città in cerca di identità.
Di parere diametralmente opposto a quello del presidente sono i rappresentanti delle organizzazioni non governative che incontriamo nella delegazione dell’Unione Europea della capitale. È il caso di Leyla Yunus, battagliera militante dei diritti umani che in agosto, senza alcun avvertimento preventivo, si è vista radere al suolo l’edificio che ospitava la sede della sua associazione, l’Istituto per la Pace e la Democrazia, con all’interno tutti gli archivi e l’equipaggiamento informatico, dopo un’intervista in cui denunciava il mancato rispetto delle libertà fondamentali in Azerbaijan rilasciata pochi giorni prima al New York Times. "La legislazione è ineccepibile, quello che manca è lo stato di diritto”, attacca, "il potere giudiziario è completamente sottomesso a quello politico con continue pressioni e intimidazioni nei confronti degli oppositori messi spesso sotto inchiesta o trattenuti in arresto senza processo o condanna”. Anche Gubad Ibadoglu e Rasul Jafarov, in rappresentanza di altre due organizzazioni, non usano mezze parole nel criticare la situazione del paese dove vige un alto livello di auto-censura e viene negato il visto di ingresso ai giornalisti stranieri sgraditi al regime.
I difensori dei diritti dell’uomo, in particolare, attirano l’attenzione sull’operazione in corso di sfratto e risistemazione di 60.000 persone nella capitale. "La demolizione delle abitazioni avviene senza alcuna decisione della corte -fanno presente- non è possibile aver accesso al progetto urbanistico e non esiste alcuna procedura di appello per chi si oppone all’ordine delle autorità”.
I negoziati fra Azerbaijan e Unione europea per il nuovo accordo che dovrebbe sostituire il vecchio Accordo di Partenariato e Cooperazione procedono a rilento. La parte azera tentenna, indugia di fronte alle offerte di Bruxelles di un approfondimento delle relazioni. L’uso di termini come "associazione” e "convergenza”, fa sapere, ricorda i tempi sovietici, quando in nome della fratellanza comunista Mosca si occupava anche delle faccende di Baku. In fin dei conti agli azeri non conviene stringere troppo i legami con l’Unione visto che non hanno un’economia in cerca di nuovi sbocchi commerciali o un apparato industriale in grado di competere con il mercato unico europeo. Quello di cui hanno bisogno è semplicemente un cliente per i propri idrocarburi e per questo non occorrono particolari vincoli che comportino ingerenze o intrusioni su terreni insidiosi come quelli della democrazia e dello stato di diritto. In dieci anni, secondo le statistiche, l’indice di povertà in Azerbaijan è passato dal 49% della popolazione al 7%.
Ancora per qualche decina di anni le rendite petrolifere sono garantite, poi si vedrà. Intanto, a detta di alcuni analisti, sono 55 i milioni di dollari spesi dalle autorità azere ogni anno in pubbliche relazioni al fine di garantirsi un’attenzione e un’immagine internazionale consona al peso energetico del paese. In fondo l’ipocrisia è una componente elementare della diplomazia. Per adesso sono tante le strade che portano a Baku e tutte trafficate.
internazionalismo
Una Città n° 193 / 2012 Aprile
Articolo di Paolo Bergamaschi
LA SINDROME OLANDESE
Il nuovo volto di Baku, dove finalmente gli aerei atterrano di giorno e non più di notte, segno di un’avvenuta promozione; l’incapacità dell’Ue di giocare un ruolo significativo nel dialogo con l’Armenia; un’economia fondata quasi esclusivamente sulle rendite da petrolio. Diario di viaggio di Paolo Bergamaschi.
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Paolo Bergamaschi ha lavorato per 24 anni come consigliere politico presso la Commissione Esteri del Parlamento Europeo. Veterinario di professione, collabora con riviste, siti web e quotidiani con reportage e analisi di questioni europee e avvenimenti in...
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Paolo Bergamaschi è consigliere per gli affari esteri al Parlamento Europeo. Veterinario di professione, collabora con riviste, siti web e quotidiani. Con Infinito edizioni ha pubblicato Passaporto di servizio (2010) e L’Europa oltre il muro (2013). Da ve...
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