Mario Spada, architetto, coordina il Dipartimento Politiche sviluppo e recupero periferie, presso l’Assessorato Periferie Sviluppo Locale e Lavoro del Comune di Roma, dove lavora anche Alessandro Messina. Remo Pancelli, dell’associazione Antropos, vive a Tor Sapienza; Anita Matteucci, XIII Municipio di Roma, vive a Ostia; entrambi hanno partecipato a esperienze di Contratto di quartiere col Comune di Roma.

La partecipazione dei cittadini sta entrando sempre più anche nelle pubbliche amministrazioni, in particolare nell’ambito della progettazione urbanistica. A Roma, da qualche anno si sta sperimentando il “contratto di quartiere”. E possibile fare un primo bilancio?
Mario. La mia personale esperienza appartiene più alla sfera tecnica della cosiddetta urbanistica partecipata, un tema presente in Italia, in Europa, da parecchi anni ormai; oggi esiste anche una Commissione dell’Istituto Nazionale dell’Urbanistica, che si chiama Urbanistica Partecipata e Comunicativa, perché un pezzo importante della partecipazione è la comunicazione: una buona comunicazione è già un notevole passo avanti verso la partecipazione. Fatta questa premessa, la mia esperienza è legata ad alcune attività sperimentali che nascono a Roma nel ‘94-95, con l’avvio di un ufficio che si è poi trasformato in unità organizzativa del XIX Dipartimento, Sviluppo e Recupero delle Periferie.
I Contratti di quartiere nascono nell’ambito di programmi di riqualificazione urbana; al di là del nome, che può piacere o non piacere, resta il senso che la riqualificazione urbana in qualche modo va condivisa, contrattata, articolata in un contesto che sia di relazione con i soggetti locali, prima di tutto i cittadini.
Credo sia ormai acquisito che la progettazione oggi, nella città moderna, se non è partecipata, se non coinvolge gli attori del territorio, può produrre disastri giganteschi, anche danni economici; pensiamo al Piano Urbano Parcheggi (Pup), fatto a tavolino, che pare abbia fatto perdere al Comune di Roma, tra ricorsi al Tar, ecc. miliardi di vecchie lire, e poi si sono dovuti pagare cantieri rimasti interrotti, ecc.
Allora, si deve innanzitutto puntare al coinvolgimento di tutti i cittadini, evitando qualunque esclusione sociale, soprattutto delle figure più deboli, quelli che hanno più difficoltà ad autorappresentarsi. Dopodiché, tra i cittadini, ci sono alcuni soggetti che sono più attivi, la cosiddetta cittadinanza attiva, quelli che si organizzano in associazioni di quartiere, in associazioni culturali, gruppi d’interesse.
Nei contratti di quartiere, nei limiti delle nostre risorse, finanziarie, di personale, ecc. cerchiamo di fare un’assemblea di comunicazione iniziale, in cui si dice a tutti: venite che verranno presentate le idee generali sul quartiere. Dopo le assemblee si fanno seminari, incontri, workshop, con tecniche che vengono dalla cultura aglosassone; non si tratta di assemblee, ma di attività di laboratorio, di lavoro effettivo, in cui vengono coinvolti i soggetti organizzati, la cittadinanza attiva. Con questi noi organizziamo delle proiezioni, degli scenari possibili di sviluppo locali; si fa un programma e poi si entra nel merito delle singole opere, attività, ecc. infine questo programma va comunicato all’insieme della cittadinanza.
Credo che il dato interessante sia che, in generale, dopo i primi dieci minuti di perplessità perché si avverte qualcosa di inconsueto, risulta subito evidente che non si possono adottare tecniche rivendicative. Infatti si chiarisce subito: “Siamo qui per progettare assieme”. Insomma, non è più l’assemblea classica, dove di solito nasce la rivendicazione, l’opposizione, quell’aspetto di conflittualità che di solito è il primo approccio tra amministrazione e cittadini.
Ciò che invece resta da indagare è come si tengono in equilibrio le diverse esigenze di ordine tecnico e politico, per evitare qualsiasi esclusione.
Remo. Io partirei da una considerazione. Come diceva Mario prima, il discorso della partecipazione viene da lontano, non è un’invenzione dell’oggi. Però a mio avviso, ha finito la sua parabola iniziale. Intendo dire che secondo me è maturato un altro passaggio.
La partecipazione infatti dovrebbe uscire da quella fase importantissima di coinvolgimento della società civile organizzata e trovare gli strumenti per coinvolgere la società nel senso più ampio. E’ un lavoro complicatissimo; noi lo stiamo in parte già sperimentando, e credo sia l’unica via per non prend ...[continua]

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