Una curiosità: come nasce il termine “badante”?
Questo termine è stato resuscitato da Bossi in occasione dell’ultima regolarizzazione -anche se chi si occupa del problema preferisce usare la definizione di assistente familiare o domiciliare- perché la Lega si è resa conto che la domanda maggiore di manodopera immigrata veniva proprio da questo settore. Nelle fabbriche, bene o male, il progresso tecnologico e la delocalizzazione possono sostituire il fabbisogno di operai, ma nell’assistenza domiciliare ciò è evidentemente impossibile; d’altronde è un lavoro che le donne italiane non ritengono più adeguato. Certo, c’è anche qualche badante italiana, per lo più giovani studentesse o disoccupate, o anche studenti maschi, spesso in cerca di un alloggio; anzi a Roma e Milano sono stati messi a punto dei progetti per affidare degli anziani a ragazzi giovani in cambio di vitto e alloggio. Invece l’età media di una badante immigrata è intorno ai 40-50 anni.
In Italia il fenomeno si è diffuso molto in fretta, risolvendoci in qualche modo il problema dell’assistenza agli anziani…
Sì, l’Italia sembra che sia ai primi posti al mondo per numero di badanti. Vengono utilizzate soprattutto per la cura degli anziani, mentre all’estero, negli Stati Uniti o in Germania ad esempio, vengono impiegate soprattutto per l’assistenza ai disabili; questo verosimilmente si spiega con il fatto che l’Italia ha uno dei più alti indici di invecchiamento del mondo e nel contempo è piuttosto carente quanto a istituti di assistenza per gli anziani.
Quando si affronta il problema delle assistenti familiari occorre tenere presente le due parti in causa: gli assistiti e le assistenti. E anche all’interno di ciascuna di queste parti in causa, vanno considerati due aspetti. Dal lato degli assistiti, la condizione degli anziani non autosufficienti e quella delle loro famiglie. Dal lato delle assistenti, la loro condizione di lavoratrici immigrate -spesso irregolari- e, anche qui, quella delle famiglie e delle comunità da cui provengono.
Relativamente al primo di questi quattro aspetti, il nostro Paese ha due milioni e settecentomila persone classificate come disabili non autosufficienti; di queste oltre due milioni sono sopra i 60 anni e il 30% sopra gli 80 (ovviamente l’invalidità progredisce in maniera proporzionale all’età). L’Italia ha il tasso di invecchiamento più alto del mondo: se proiettiamo questi numeri nell’immediato futuro, con l’ausilio delle tecniche di proiezione demografica, vediamo che nel giro di pochi anni la situazione diverrà catastrofica. Per visualizzare la composizione demografica di una determinata popolazione si usa un grafico denominato piramide delle età, cioè un istogramma orizzontale dove a destra sono collocate le femmine e a sinistra i maschi e ogni barretta rappresenta una classe di età. Si chiama piramide perché all’inizio del Novecento la figura geometrica che ne derivava aveva veramente l’aspetto di una piramide, più o meno per tutte le popolazioni mondiali: le fasce di età dove si collocava la maggioranza della popolazione erano le prime, posizionate in basso; dopodiché, col crescere dell’età, la figura si assottigliava in misura crescente. Oggi invece la figura ha l’aspetto di una botte o di un rombo perché è diminuito in maniera evidente il livello di fecondità, si è ridotta in maniera sensibile la mortalità delle fasce intorno ai 35-45 anni e si è allungata la durata media della vita. E poiché il periodo di fecondità delle donne è circoscritto, possiamo prevedere con un discreto margine di sicurezza la composizione futura della popolazione in base all’età. Tra il 2030 e il 2050 la figura avrà l’aspetto di un fungo, una struttura dalla base molto sottile che si allarga sempre più nelle ultime fasce di età. Nel 2030 la fascia di età più rappresentata sarà quella intorno ai 60-65 anni per le donne e 55-60 per gli uomini; arrivati al 2050 la ...[continua]
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