Intanto com’è nata l’inchiesta che l’Ires ha svolto tra gli operai di Melfi?
Per me è stata un’esperienza importante, anche se non vi ho partecipato direttamente, perché dal ’90 al ’91, quando la Fiat ha cominciato a cambiare il modello organizzativo, a parlare di fabbrica integrata, di superamento del fordismo e del taylorismo, non ero mai riuscito a realizzare inchieste che riuscissero a dar conto dell’esperienza dei lavoratori. Questa è stata per me la prima esperienza. Stranamente, non sono riuscito a farla se non per accenni sparsi, parlando con singoli compagni a Torino, mentre invece a Melfi, grazie al compagno Piero di Siena, un leader storico del partito comunista nella Basilicata, che adesso è a Roma come redattore de L’Unità, ma ha mantenuto rapporti con quella situazione, si è riusciti a mettere insieme un nucleo di giovani, di studenti, di quadri politici locali, che, in stretta collaborazione con la Fiom, hanno fatto l’inchiesta su come i lavoratori vedono la fabbrica integrata. L’inchiesta si è svolta tra gennaio e ottobre dell’anno scorso, le interviste sono state fatte quando ormai lo stabilimento era a pieno regime e si poteva vedere la fabbrica integrata in funzione. Non abbiamo fatto tantissime interviste, perché abbiamo evitato di passare attraverso i canali della direzione, che in generale è molto disponibile: in particolare a Melfi la Fiat ti fa ponti d’oro. Abbiamo usato in parte contatti sindacali, ma non volevamo avere un campione di operai sindacalizzati, perché altrimenti avremmo avuto il punto di vista di una minoranza più caratterizzata politicamente.
Ci siamo basati largamente sui contatti di paese, perché la forza lavoro di Melfi è sparsa nei paesi, per cui, se hai qualche compagno nel paese, riesci a parlare con un po’ di gente: è così che si sono fatte una cinquantina di interviste, quasi tutte in Fiat, non solo a operai di linea, ma a tutte le figure qualificate, conduttori, capi, tecnologi, insomma tutta la gamma dell’universo lavorativo della Fiat di Melfi.
Allora, parliamo un po’ dei risultati di questa inchiesta. Intanto, come vanno le cose a Melfi, è un buon risultato dal punto di vista della Fiat?
Funziona come tutti i buoni vecchi stabilimenti Fiat. Alla fine, le loro vetture le sfornano, riescono bene o male a venderle; da questo punto di vista non è un clamoroso fallimento. E’ interessante però capire che Melfi sarà molto diversa rispetto al modello che la Fiat, al di là di quanto propagandato, si proponeva veramente di realizzare. Nella realtà ci si mette sempre di mezzo il conflitto sociale, i rapporti sociali che il padrone non sa mai calcolare in anticipo.
Capire come vanno le cose a Melfi è particolarmente interessante, perché la Fiat stessa aveva fatto capire che ci puntava molto, visto che la fabbrica integrata a Torino non la poteva realizzare fino in fondo, essendo gli operai vecchi e un po’ analfabeti e i capi intermedi bacati dal vecchio sistema Fiat, quindi incapaci di lavorare secondo le nuove logiche. In posti come Torino, dicevano, ci si arrangerà, si correggeranno le vecchie storture, ma più di tanto non si potrà fare finché ci saranno i vecchi operai; se pensasse poi di assumerne di nuovi non lo si è mai saputo. A Melfi, invece, la Fiat costruisce tutto, progetta insieme sia il lay-out che lo stabilimento, sono del tutto nuove la tecnologia, l’organizzazione e, salvo pochissime unità, tutte le persone; era l’operazione "prato verde", con la quale la Fiat sperava di avere maestranze docili rispetto alla propria volontà, non bacate dal vecchio sistema burocratico e gerarchico e pronte ad assorbire tutta la nuova filosofia organizzativa.
Ma vorrei essere preciso su questo: anche rispetto all’ipotesi "prato verde", la mia impressione è che la Fiat non abbia mai pensato a un lavoratore talmente identificato con l’azienda da fare tutta una serie di cose non perché gli vengono imposte, ma perché utili all’azienda. Credo che la Fiat abbia sufficiente esperienza di gestione della classe operaia per non puntare a questo. Ricordo che una volta Magnabosco diceva: "Noi non possiamo pretendere che il lavoratore s’identifichi con l’avvitamento di un bullone".
La Fiat sperava più semplicemente che il solo fatto di portare 6.000 posti di lavoro, più altri 22.000 di indotto, in un luogo dove non c’erano tante industrie, dove il lavoratore non ha attorno alternative appetibili, avre ...[continua]
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