Nel viaggio che hai compiuto tra i musulmani in Europa, ti sei occupata anche di paesi e modelli poco indagati, come la Svezia, la Spagna, ecc.
Il modello assimilazionista francese e quello del multiculturalismo del Regno Unito sono da tempo in crisi. Mi sembrava allora interessante dare voce anche a modi diversi di declinare la politica nei confronti degli immigrati.
Un paese da prendere in considerazione è sicuramente la Spagna che già dal 1992 -esattamente cinque secoli dopo la cacciata di ebrei e moriscos dalla Spagna cattolica del 1492- ha firmato un’intesa tra Stato e comunità islamica in base alla quale gli immigrati musulmani possono costruire i loro cimiteri, hanno diritto a giorni di festa, trovano carne halal nelle mense, ecc.; l’intesa garantisce inoltre lo statuto giuridico delle moschee e degli imam, gli effetti civili dei matrimoni celebrati con rito musulmano, il finanziamento e l’insegnamento della religione islamica a scuola.
La Commissione islamica di Spagna è composta dalla Federazione spagnola delle entità religiose islamiche (Feeri) e dall’Unione delle comunità islamiche di Spagna (Ucide). In Spagna è in corso, ormai da 14 anni, un importante dibattito sui criteri di scelta degli insegnanti deputati a insegnare la religione islamica nelle scuole; purtroppo, le due associazioni, a distanza di tanto tempo, non si sono ancora messe d’accordo per trovare una lista unitaria di docenti. Quindi non è detto che una mano tesa da parte di un governo sia poi risolutiva, perché vi sono tantissime divisioni all’interno delle comunità di fede musulmana.
Un tratto invece comune ai vari paesi è sicuramente la difficoltà nell’integrazione, tallone d’Achille un po’ di tutti i modelli, come si è visto recentemente nelle periferie francesi, ma non solo.
Nella primavera 2006, sul sito dell’emittente britannica Bbc, è stata pubblicata un’inchiesta a puntate di Roger Hardy, un bravissimo giornalista, da anni analista sul Medio Oriente, frutto di un viaggio in Europa per tastare il polso delle comunità immigrate. Dalla sua inchiesta emerge un grande disagio sociale tra immigrati di fede musulmana. L’integrazione comincia sicuramente sui banchi di scuola, ma poi bisogna anche offrire delle reali opportunità di lavoro, perché non serve a nulla avere un diploma, essere laureati, se poi non si trova un impiego.
Il problema maggiore oggi è la disoccupazione, che a sua volta innesca una serie di altri problemi, come la casa e quindi la costruzione di una famiglia. Se poi in queste dinamiche le discriminazioni continuano ad avere un peso, è evidente che frustrazione ed esasperazione non possono che crescere. Sono quindi necessarie delle politiche finalizzate, un po’ come hanno fatto con i neri negli Usa. Io trovo che il sistema delle quote, per quanto foriero di polemiche, potrebbe aiutare ad affrontare il problema. Non tanto a risolverlo nel lungo periodo, ma almeno a dare l’avvio, a mettere in marcia una macchina che poi proceda da sola e dia risultati positivi nel medio periodo.
Nella tua indagine emerge un problema rispetto alla formazione degli imam, che poi ha a che fare anche con la questione dell’integrazione…
Premesso che, sulla base di sondaggi condotti in Europa dopo l’11 settembre 2001, soltanto il 5% dei musulmani va regolarmente in moschea (e questo non vuol dire che non siano dei buoni musulmani, soprattutto nel caso delle donne), la formazione degli imam è senz’altro un punto critico. A questo proposito, credo che la Svezia offra uno spaccato significativo. Hassan Mousa, l’imam della moschea di Stoccolma situata in pieno centro, è stato nell’occhio del ciclone nel 2004 perché uno studente di origine irachena ha ...[continua]
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