Adela
Ad aprile abitavo ancora a Sarajevo, nella parte della città che si chiama Grbavica. C’era già la guerra, ma ancora si poteva attraversare il fiume che divide la città in due parti e raggiungere il centro, che dista 10 minuti di macchina. Ogni giorno normalmente andavo in centro, all’Ambasciata dei bambini dove lavoravo, e si poteva ancora comprare qualcosa per l’Ambasciata. Ma nella notte fra l’uno e il due di maggio i cetnici hanno occupato questa parte della città e da quel momento non si poteva più entrare od uscire. Il 21 maggio con mia madre, mia figlia e un gruppo di bambini, figli dei miei vicini di casa, abbiamo tentato di attraversare fortunosamente il fiume, dove c’era un ponte. Fino a quel momento i cetnici erano entrati nel mio appartamento per cinque volte e ogni volta non sapevo come sarebbe finita, se mi avrebbero portato via o no, perché mio marito è nato a Belgrado, per cui è serbo e io sono musulmana. Entrambi siamo pacifisti e non volevamo nessuna guerra. Un giorno hanno fermato tutti gli uomini serbi delle case intorno, fra cui mio marito, per portarli nelle prime linee a combattere. Li avrebbero mandati nelle prime linee per poter controllare se sparavano oppure no. Fu un vero shock per me e da quel momento non ho avuto più paura dei cetnici né delle granate, non mi importava più di come sarebbe finita. Ma mio marito è riuscito a convincerli che lui era pacifista, che lavorava con i bambini e che per il suo lavoro non poteva avere a che fare con le armi.
Ogni giorno di più non si sapeva cosa sarebbe successo il giorno dopo, per cui abbiamo deciso di lasciare quella parte della città e fuggire. Ci siamo accordati di dividerci in due gruppi per partire. Nel primo gruppo c’ero io con mia madre e mia figlia, nel secondo mio marito con mia sorella. Ho raccolto i bambini dei vicini, in tutto eravamo in 15, e abbiamo portato con noi solo poche cose in piccoli zaini. Abbiamo attraversato cinque posti di blocco dei serbi e quando siamo arrivati nel centro della città abbiamo trovato una sistemazione per i bambini da dei loro parenti o amici. Io, con i miei, sono andata all’Ambasciata dei bambini e siamo stati due mesi nelle cantine di questo edificio, che è uno dei più grandi e importanti di Sarajevo. L’edificio è stato colpito da almeno una trentina di granate. Una notte di giugno il palazzo era a fuoco dal quinto piano fino al venticinquesimo, tutto era bruciato senza possibilità di risistemare. Eravamo tutti là, quella notte. Quando sono arrivati i pompieri è iniziato un bombardamento fittissimo per fermarli. Questo era un modo dei cetnici per fermare ogni tipo di aiuto. Dall’altra parte dell’edificio si poteva vedere il palazzo dove abitavo, a 150 metri di distanza. Mio marito, che in quel momento stava là, mi raccontò poi che quella era stata la notte più brutta della sua vita: vedeva il fuoco, sapendo che sua moglie era lì dentro, e tutta Sarajevo era illuminata da quell’incendio. Per tutta la notte, dal terrazzo, ha guardato le fiamme senza potersi muovere e fare qualcosa per aiutarmi. Per due mesi e mezzo abbiamo dormito su dei sacchi di farina sistemati nei corridoi delle cantine e abbiamo mangiato solo riso e spaghetti. Ed eravamo fortunati... In altre parti della città, senza elettricità, mettevano gli spaghetti nell’acqua alla sera e li mangiavano così crudi la mattina dopo. Con questa alimentazione ho preso la paradentosi. Quando mi hanno tolto un dente non potevo sciacquarmi la bocca perché non c’era acqua... E ripeto, in fondo io sono stata fortunata. Una madre è venuta all’Ambasciata venti giorni dopo la morte dei suoi bambini: ha visto morire i suoi due figli e quello di sua sorella colpiti, da una granata nel giardino di casa. Non hanno potuto neanche far loro il funerale perché erano in piccoli pezzi... E’ venuta con un mazzo di fiori, dicendo che se i suoi bambini non potevano più godere dei fiori almeno potevano farlo i bambini che erano con n ...[continua]
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