Dopo un’esperienza pluriennale di assistenza domiciliare a pazienti oncologici, è nata l’esigenza e il desiderio di creare un hospice. Può raccontare?
Anna Mancini Rizzotti. L’associazione Advar è nata nel 1988. E’ stata una cosa che, assieme ad altri, ho fortemente voluto alla luce dell’esperienza di malattia e morte che avevo vissuto. L’associazione è infatti intitolata a mio marito, che era medico urologo, chirurgo, e che si è ammalato di tumore alla prostata, proprio il tumore che curava e su cui faceva prevenzione.
All’epoca il domicilio non veniva nemmeno preso in considerazione. Mio marito è morto in ospedale che però in fondo era la sua casa. Anche se nell’ultimo periodo avrebbe desiderato tornare, ma non c’erano i mezzi. Quest’esperienza mi ha permesso di fare tutta una serie di riflessioni su cosa significa essere un malato terminale e di come cambia la prospettiva, come cambiano le cose importanti. Per dire, per il chirurgo è importante se l’intervento è riuscito, per il malato invece può essere più importante il dolore, all’epoca tra l’altro l’uso di morfina e altri farmaci era molto ridotto. Come familiare ho imparato anche che l’accompagnamento non può limitarsi alla persona malata ma deve coinvolgere tutto il nucleo familiare.
Io insegnavo ma, dopo la morte di Alberto, ho maturato la decisione di lasciare il mio lavoro. Ho coinvolto gli amici che erano stati i primi volontari accanto a me e abbiamo deciso di avviare quest’esperienza di assistenza domiciliare gratuita. Allora il domicilio era una opzione etica, una scelta che andava controcorrente, era anche una sfida: dimostrare che era possibile che il malato in fase terminale potesse vivere e morire a casa.
Ecco, dopo 10 anni di assistenza domiciliare, nonostante l’ottima équipe, la reperibilità, un’attenta cura e accompagnamento anche del nucleo famigliare, ci si è resi conto che in alcune situazioni non era possibile tenere la persona a casa per cui o veniva ricoverata in ospedale, o la si teneva a casa ma con un’immane fatica della famiglia.
Devo dire che di fronte all’esperienza le mie resistenze personali, ma anche di altri, si sono frantumate e quindi abbiamo pensato di realizzare l’hospice. Presa la decisione, abbiamo iniziato a girare per capire quali realtà esistevano.
Abbiamo fatto anche un’opera di sensibilizzazione perché c’erano delle persone, utenti, ma anche operatori, che non capivano, che vivevano l’hospice come un tradimento della scelta domiciliare: “Ma come? Andate in direzione opposta”. Occorreva far comprendere che non era un tradimento ma un’integrazione, un’altra possibilità per la famiglia.
Infatti il ricovero può avvenire anche solo in una fase acuta o di difficoltà del nucleo familiare. E comunque per noi non esiste un hospice senza accompagnamento domiciliare altrimenti è una struttura nel deserto.
Per esempio noi adesso abbiamo una persona che è stata ricoverata soprattutto per un contesto famigliare complesso, nella convinzione che una pausa possa consentire di recuperare energie e anche di sedimentare delle tensioni, per poi eventualmente tornare a casa.
Nella fase terminale, nell’ambito delle cure palliative, le infermiere sono quasi più importanti dei medici…
Erika Da Frè. Lavoro qui in hospice da tre anni e mezzo e fornisco assistenza diretta agli ospiti. Ho iniziato lavorando in un ospedale dove pure mi ero imbattuta nell’assistenza al malato terminale, ma in ben altro contesto, maturando fin da allora il desiderio di un altro tipo di approccio, di un altro tipo di assistenza. L’esperienza qui è stata fin dall’inizio molto appassionante perché essendo una realtà nuova, è stato un po’ un costruirla assieme. Per me è una grande opportunità anche quella di poter lavorare in un contesto di équipe e in un’ottica globale, olistica rispetto al paziente e alla sua famiglia.
Per rispondere alla domanda devo dire che questo è stato proprio il mio percorso, oltre che umano, professionale. Io ho ritrovato l ...[continua]
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