I nostri nonni non ci hanno raccontato molto sulla Palestina del 48. C’era quella chiave… Nella stanza dove si dormiva tutti stesi per terra, uno accanto all’altro, i miei quattro fratelli e mia sorella, con dei materassi foderati di vestiti vecchi, c’era una specie di arco, sopra c’era questa chiave… la chiave della nostra casa d’origine. Oggi in quella casa vivono degli ebrei di origine francese... Ma è la nostra casa, hanno cambiato il colore delle tende, hanno piantato qualche fiore in più, forse hanno tenuto le piante che c’erano prima, non saprei. L’unica cosa che so è che la casa è lì, è ancora intatta e noi la sogniamo nostra, e possono fare tutto quello che vogliono, la casa continua comunque ad essere nostra.
Questa è un’ingiustizia che io non perdono. Io contesto la parola solidarietà, cioè l’ingiustizia va riparata e basta.
Che poi è impressionante: la Palestina è un posto così piccolo eppure si sono concretizzate tutte le forme di ingiustizia, dalla pulizia etnica al tentativo di distruggere un popolo, la sua storia. Quando torno, c’è sempre il soldato che ti fa la domanda provocatoria “Dove stai andando?”, “Vado in Palestina” “Non esiste la Palestina”. Oggi ho più coraggio e sfido anche il soldato. In passato qualsiasi dialogo era precluso. Lui diceva: “Sheket”, “Zitto”. E’ questa la parola che ho sentito da quando avevo due anni.
Io sono nato nel campo profughi di Deishe, vicino a Betlemme. Allora c’era il filo spinato alto otto metri e un unico ingresso, con una specie di porta girevole, come quelle delle banche, ma molto più brutta, che a una certa ora chiudeva. Ecco, immagina quindicimila persone, uomini, donne e bambini, che alle cinque del pomeriggio dovevano tutte rientrare, come fosse un pollaio, dopodiché scattava il coprifuoco. Ricordo che c’era l’altoparlante e questi soldati che gridavano e insultavano la gente anche in maniera molto volgare.
Dopodiché la mattina presto, alle sei, si toglieva il coprifuoco e la gente usciva. Un vero e proprio ghetto. Una forma di umiliazione pazzesca, e non entro nei particolari, ci si potrebbe scrivere un libro…
Noi siamo una famiglia abbastanza numerosa, cinque fratelli e cinque sorelle, e devo anche dire che abbiamo avuto una doppia diaspora, in verità, una nel ’48 e una nel ’67.
Nel 1948, quando c’è stata la diaspora mio padre aveva 12 anni, quindi non è che ricordi molto. Per tanto tempo c’è stato questo anello mancante, nel senso che c’era una domanda che rimaneva senza risposta: perché noi viviamo così? Oggi sappiamo com’è andata, della cacciata dei palestinesi dopo il maggio ’48. Ecco, quello di Deishe è uno dei tanti campi profughi sorti allora. All’inizio era una distesa di tende in una specie di depressione, attorniata da colline, molto vicina a Betlemme, a un paio di chilometri dal centro, per quanto non sia mai entrato a far parte della Municipalità di Betlemme, è stato sempre considerato un territorio quasi autonomo.
Il campo profughi è grande poco più, poco meno, di un chilometro quadrato, all’inizio i profughi si sono ammassati con delle tende, quando è sorta l’agenzia Unrwa hanno cominciato a costruire queste casette senza fondamenta, senza cemento armato, delle baracche praticamente. Noi siamo nati lì, forse qualcuna delle mie sorelle è nata nelle tende. Noi abbiamo passato la nostra vita in tre stanze, una accanto all’altra. La cosa curiosa è che avevamo perfino una stanza per gli animali, ci dovevano dare da mangiare e noi non li lasciavamo mai fuori… Se c’è un paese che tratta bene gli animali, è la Palestina!
Davanti mio nonno aveva piantato qualche alberello, mandorli, ulivi, ecc. Voleva in qualche modo riprodurre la Palestina dei suoi ricordi. Lui infatti era originario di una terra molto fertile lungo la costa palestinese. Le zone di Betlemme, Hebron non sono molto verdi, più a sud c’è il Negev che è deserto. Invece verso il nord, o lungo la costa verso ovest, è tutta un’altra cosa. Ecco, la mia famiglia viene da là, dalla zona di Haifa, dove la terra è molto fertile... Così c’era anche questo rimpianto, di aver lasciato una terra bellissima per ritrovarsi in condizioni pazzesche. La rabbia poi non era tanto per la condizione in sé, ma per il motivo per cui ci eravamo trovati in quelle condizioni lì: cosa abbiamo fat ...[continua]
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