Nel tuo libro presenti la "società della conoscenza” come "società delle incognite”. Ci puoi spiegare questo ribaltamento?
Partirei dalla crisi, la crisi dentro cui siamo calati, e dalla difficoltà di identificare un colpevole. Adesso siamo soliti puntare il dito contro i finanzieri senza scrupoli. In verità la crisi è molto grave, non tanto per gli effetti (che magari in Italia sono limitati), ma perché nessuno ha delle ricette e non è assolutamente chiaro come uscirne... Insomma, manca il colpevole. E il colpevole deve essere per forza qualcosa di impersonale, cioè una teoria, una impostazione, non può essere semplicemente questo o quell’altro disonesto. E nello stesso tempo non possiamo chiudere il discorso dando la colpa al neoliberismo, contro il quale ora se la prendono tutti, perfino Tremonti e Fini. Io penso ci sia qualcosa di più profondo, che riguarda anche il modo di organizzare l’opinione pubblica. Esiste un pensiero unico, ma non penso sia il neoliberismo o il capitalismo. Penso, invece, sia il "cognitivismo”. Mi riferisco a quella visione generale che tende a ridurre la società a un insieme di persone accomunate dalla capacità di comunicare. Il centro di gravità sarebbero la persona e i rapporti interpersonali, mentre tutto ciò che è impersonale è immediatamente spersonalizzante, fonte di burocrazie spietate, ecc. Si tratta, insomma, di un bilancio molto "violento”, semplificato e riduttivo, di ciò che è stata la nostra storia. Critica di ogni ideologia e, soprattutto, liquidazione di tutta la dimensione impersonale, che è stata invece una conquista moderna imprescindibile: la giustizia, ad esempio, è impersonale. Gli stessi aspetti materiali del vivere, come la fatica e la sofferenza sociale, finiscono per essere trattati come delle disfunzioni comunicative.
Perché penso che questo sia all’origine della crisi? Perché, tutto sommato, anche la crisi finanziaria che stiamo vivendo, di cui siamo vittime, è stata generata dal dominio della comunicazione sull’economia. Si è giocato a chi la sapeva più lunga o a chi la sapeva raccontare meglio in termini comunicativi. Se ci pensi le agenzie di rating facevano proprio questo, dicendo grosso modo: state ad ascoltarci, perché noi vi diamo l’informazione giusta. (E l’informazione è l’unità di misura della comunicazione). Mi sembra, invece, che sia successo che, passando di informazione in informazione, si sia perso completamente il contatto con la realtà e, quindi, siamo precipitati nella crisi.
Penso che vada riscoperta la realtà, e faccio riferimento proprio alla realtà materiale della fatica, della sofferenza, dello sforzo fisico. Non è possibile risolvere tutti i rapporti materiali in termini di comunicazione, come vorrebbe la società della conoscenza. Si è arrivati al punto che anche uno spazzino è un lavoratore della conoscenza, perché cura l’immagine della città... Ma la sua fatica non conta?
Che cos’è l’etnografia del pensiero?
Quando parlo di rapporti materiali, di realtà sociale, dura, difficile e, quindi, di dimensioni fisiche spesso dimenticate e trascurate, parlo di quell’insieme di problematiche che sono state il cavallo di battaglia del marxismo, del materialismo storico e dialettico, quindi una visione classista... Non sono assolutamente un nostalgico di questa concezione, che reputo sia fondamentalmente finita. Non voglio certo fare una riedizione di idee marxiste. Quando parlo di realtà sociale, la intendo sempre filtrata dal linguaggio. Bisogna tener presente che nella seconda parte del Novecento è avvenuta una svolta linguistica: in molte parti del mondo l’analfabetismo è stato vinto. Tutti parlano e scrivono, è un potere condiviso. Anche quelli che non hanno un potere di governo, possono esprimersi, e quindi pensano a partire da come parlano.
Allora, per andare a scoprire la realtà sociale, oggi, secondo me, bisogna semplicemente andare a interpellare. Molto semplice da dire, difficile da fare: interpellare le parole e il pensiero di coloro che soffrono ...[continua]
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