La figura di Manzi è associata in maniera indelebile, nell’immaginario collettivo, alla trasmissione televisiva "Non è mai troppo tardi”, eppure ci sono altri aspetti della sua vita che meritano di essere conosciuti, a cominciare dalla sua prima esperienza di maestro al riformatorio Gabelli e alla sua intuizione legata a "La tradotta”…
Apri una pagina qualunque di Alberto Manzi e troverai qualcosa di nuovo, riscoprirai qualcosa che forse avevi preferito dimenticare, probabilmente perché, condivisibile sul piano ideale, troppo impegnativa da mettere in pratica. Sì, Manzi è noto ai più per la trasmissione televisiva "Non è mai troppo tardi”. Ed è vero, ha fatto un miracolo. Ma non solo per il numero altissimo di persone che lo seguirono, non perché un’intera generazione cominciò a sognare di fare l’insegnante ancora prima di andare a scuola, non perché ha contribuito a ridurre la piaga dell’analfabetismo, ma perché ha ridato dignità a persone che si erano sempre considerate inferiori. È l’anziano che non aveva mai potuto leggere e se ne vergognava; è il bambino disabile che sognava di imparare a leggere e scrivere nonostante non potesse andare a scuola; è l’inserviente che si sentiva inferiore perché consapevole di essere una persona che ignorava tante cose rispetto ai suoi padroni, spesso benestanti e istruiti. Manzi sapeva parlare a ognuno di loro. Lo aveva imparato sugli altipiani andini dove aveva toccato con mano il terribile binomio "sfruttamento-ignoranza”. Saper leggere e scrivere era questione di vita o di morte, di rispetto, di legalità, di emancipazione. Il pacato maestro di "Non è mai troppo tardi” non aveva paura di rischiare la pelle per difendere l’altro. "Ogni altro sono io” è una delle frasi che meglio lo contraddistingue. Avere nelle mani le lettere degli spettatori di "Non è mai troppo tardi”, scritte tanti anni fa, piene della gratitudine delle persone, fa ancora tremare le mani.
Manzi parla di multicultura nel 1954. Con Orzowei, usa le immagini per rompere gli stereotipi: è la M di maestro nell’abbecedario che viene rappresentata da un maestro con la pelle di colore nero. È il maestro che in un carcere minorile, come hai accennato, fa scrivere ai ragazzi detenuti un giornale, il primo, per dare loro la parola ma anche per educarli al dialogo. Erano 94 i ragazzi dell’Aristide Gabelli che gli furono affidati, nel secondo dopoguerra. Solo due non riuscirono a reinserirsi come avrebbero voluto, gli altri 92 troveranno lavoro e si faranno una famiglia.
Negli anni dell’insegnamento in carcere, Manzi si laurea in Pedagogia. Che tipo di rapporto ha avuto con il mondo dell’Università, con il sapere accademico, con la "pedagogia istituzionale”?
Manzi avrebbe potuto fare il docente universitario così come il dirigente scolastico, ma per lui era impensabile rinunciare alla prima linea, al lavoro sul campo con le persone, alla sperimentazione continua. Manzi ha fatto tanta ricerca, curioso com’era di contesti, strumenti, alunni sempre diversi. Maestro in televisione per gli analfabeti negli anni Sessanta, ma anche per gli "extracomunitari” nei primissimi anni Novanta, perché potessero integrarsi nel miglior modo possibile e nel minor tempo possibile.
Pedagogista e maestro attento alla crescita dei suoi bambini: l’educare a pensare è il cuore del fare scuola del maestro Manzi. Ogni occasione, situazione, pretesto serve al maestro per far scattare nei bambini una tensione cognitiva, la voglia e il desiderio di sapere e capire. Non è mai qualcosa di imposto dall’alto, ma un desiderio che il bambino sente nascere dentro di sé cui si appassiona perché condivide la ricerca con i propri compagni di classe e con un maestro capace di rileggere l’esperienza e la conoscenza dei bambini. Come stimolarli ad andare oltre? Come superare un punto morto? Quale esperimento proporre per mettere in discussione una certezza forse infondata? Il fare dei bambini, insieme al maestro, diventa lo spazio centrale per educare. Alberto Manzi non si è mai risparmiato: l’archivio contiene così tanti libri, documenti, registrazioni di trasmissioni radiofoniche e televisive che a volte viene da chiedersi come ha fatto un solo essere umano a produrre tanto.
La straordinaria vicenda di "Non è mai troppo tardi”, cui abbiamo già fatto cenno, è senza dubbio qualcosa di rivoluzionario. Si colloca nella Rai degli inizi, tra il 1960 e il 1968, in una temperie cultu ...[continua]
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