Dopo un’esperienza negli Stati Uniti, da qualche tempo stai tentando di avviare un esperimento di community organizing a Roma. Puoi raccontare?
Al ritorno dagli Stati Uniti avevo voglia di provarci. C’è voluto del tempo e sicuramente la svolta è avvenuta con il reperimento dei fondi grazie in particolare alla Open Society Foundation, che già finanziava un progetto analogo in Germania, e alla Fondazione Charlemagne; entrambe hanno creduto nel progetto fin dall’inizio.
Ottenuti i fondi, bisognava impegnarsi nell’altro tassello mancante. Se dovessi riassumere la difficoltà e il possibile punto di svolta che vedo nel ricorso al community organizing per creare forme più efficaci e inclusive di cittadinanza attiva rispetto a quelle già esistenti, la parola chiave è appunto “organizzazione”.
Il community organizing si chiama anche “organizing relazionale” in opposizione all’organizzazione burocratica. Le relazioni sono rigenerative, in quanto ricreano continuamente l’energia necessaria alla comunità. Al contrario, la burocrazia è ciò che tendenzialmente spegne il potenziale di cambiamento delle organizzazioni. Questo non significa tuttavia che non ci sia bisogno di organizzazioni.
Nel modello dell’Industrial Areas Foundation (Iaf) le organizzazioni sono considerate l’àncora, la base per la costruzione del potere di agire. Senza organizzazione non c’è una base di persone, una comunità da raggiungere, una responsabilizzazione rispetto a decisioni e processi, una stabilità nel tempo, un’identità.
Ora, la difficoltà che riscontriamo a Roma è quella appunto di ancorare il community organizing a un’organizzazione. Quelle con cui lavoriamo, infatti, non sono abituate a considerarsi come base di cittadinanza attiva. Fanno beneficenza, fanno cultura, fanno volontariato, fanno presidio del territorio in termini di servizi sociali, ma non vedono se stesse come possibili attrici di proposte politiche, lancio di campagne, mappatura del territorio, ricerca di soluzioni e interlocutori politici, organizzazione di cittadini con lo scopo di incidere sulle istituzioni locali e cambiarne le politiche pubbliche.
Per noi la politica la fanno i partiti o i sindacati, grosse organizzazioni capillari e radicate sul territorio, oppure Beppe Grillo... e per quanto queste organizzazioni abbiano progressivamente perso fiducia e sostegno pubblico, nessuno si sta davvero assumendo la responsabilità né di sostituirli in questa funzione, né di organizzarsi per cambiarne le pratiche di funzionamento.
Quindi la nostra prima difficoltà oggi è trovare a chi ancorarsi in termini di sostegno.
È come se ci fosse una richiesta implicita di creare noi l’organizzazione, di farla noi questa cosa. Ma, a parte che sarebbe totalmente velleitario, sarebbe soprattutto un tradimento del modello. Per carità, i modelli si possono reinventare o sperimentare in modo diverso, però qui il rischio sarebbe, di nuovo, di far prevalere l’organizzazione burocratica sul potere delle relazioni.
La nostra ambizione è invece quella di trasformare le organizzazioni esistenti in realtà capaci di utilizzare le relazioni come motore di azione e in grado di affrontare problemi di natura sistemica promuovendo capacità di ascolto del territorio e di apprezzamento delle dinamiche di potere, in collaborazione con altri attori sociali. Il punto di caduta è la creazione di un’organizzazione di organizzazioni. Noi esistiamo a supporto delle organizzazioni che vogliano fare “un salto di specie”, oserei dire, e trasformarsi in co-attrici della vita pubblica e del cambiamento politico.
Quali sono stati i primi passi?
Io ho cominciato nel modo per me più naturale, cioè offrendo dei momenti di formazione. Questo mi ha permesso di mettere insieme gruppi diversi, di iniziare a conoscere i quartieri e anche di divulgare questa cultura e queste pratiche.
Sono stato chiamato dalle Acli nazionali per lavorare con gli animatori di comunità; ho collaborato con la scuola Di Donato, un modello di scuola aperta all’avanguardia a Roma. Ho incontrato molte realtà e avuto molti contatti. Il punto è che la formazione da sola non basta se poi non c’è qualcuno che fa propria quest ...[continua]
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