Il suo ultimo libro è attraversato da una vena di preoccupazione e d’inquietudine, presente fin dal sottotitolo, La distruzione del passato. La prima domanda che mi viene in mente è: chi lo sta distruggendo? Siamo noi stessi o c’è un progetto preciso? E perché?
La frase non è mia: l’ho presa in prestito da Hobsbawm. Lui aveva questa precisa idea, che il senso della storia si costruisce partecipando alla storia, combattendo per qualcosa, legando il passato al futuro con un progetto. Hobsbawm dichiarava estinto il progetto marxista a cui aveva partecipato e guardava al suo presente come un intellettuale messo fuori gioco. La mia impressione nasce per gli stessi motivi: la fine della lotta politica, la rinuncia ai progetti di trasformazione della società; e diventa più forte davanti al carattere dei tempi che viviamo.
Naturalmente c’è il rischio che questo libro possa essere nato semplicemente dal tipico disincanto e dall’abbandono del vecchio che non comprende più il suo tempo e si sente messo da parte; ma la mia impressione complessiva è che il senso della storia non appartenga al capitalismo del nostro tempo.
Un capitalismo “della sorveglianza”, come l’ha definito Shoshana Zuboff, il quale ha tutto l’interesse -e la spontanea capacità- di creare dei rapporti con individui isolati; rapporti dominati da una volontà di possesso e tesi a capire desideri e bisogni individuali per soddisfarli, negando però la possibilità di unirsi con gli altri e partecipare a bisogni e necessità di gruppo o di classe per cambiare il mondo. Questo è il carattere che ha reso grande e ricca Google e molte altre realtà: quando ci si è accorti che si avevano gli strumenti per collegarsi direttamente col singolo per suggerirgli e offrirgli bisogni e desideri, senza impiegare per questo organizzazioni di lavoratori, in quel momento è iniziata la storia del presente. Questa stagione che stiamo attraversando, col neoliberismo e la nuova rivoluzione industriale dell’informatica, è una fase che storicamente può ricordare i costi e i progressi della prima rivoluzione industriale, quando l’umanità ha sciolto le sue catene, ma a costi terribili. Ogni passo avanti fu pagato da sofferenze inaudite.
Quali fatti la spingono a sostenere questa tesi?
Questo libro è la ripresa di una chiacchierata che avevo fatto a Genova davanti a un pubblico; l’ho scritto con grande perplessità, perché fare prediche può apparire un lamento fuori tempo. E non corrisponde certamente alla sensibilità e alla coscienza di molti altri storici: ho ricevuto infatti molte contestazioni.
Alcuni storici hanno detto che il passato deve passare, che non ci si può impiccare a una data o a un evento, sia pure significativo come Auschwitz. Ma la convinzione che la cancellazione del passato stia davvero accadendo mi viene confermata dallo stato diffuso nella parte più giovane della nostra società.
È evidente lo smarrimento del senso storico fra i negazionisti, fra gli hater, fra chi reagisce violentemente contro i monumenti del passato. Pensi che quest’anno, per il centenario dantesco, in un paese toscano chiamato Caprona gli abitanti hanno esposto uno striscione che recitava “Dante non ci rappresenta”, semplicemente perché Dante ne aveva parlato male nella Commedia. Questo rifiuto di tutto ciò che ricorda un passato sgradevole e non desiderato un tempo non accadeva, perché c’era la convinzione che la storia procedesse verso ulteriori conquiste, che avesse un senso, e si avvertiva il bisogno profondo di ancorarsi al passato per gettare un ponte al futuro per capire da dove si provenisse e dove si stesse andando. Oggi si è smarrito il futuro. C’è solitudine, c’è deprivazione di diritti, di tempo, di vita.
A tutto ciò si aggiungono dettagli di contorno: ad esempio, la fine della fiducia nel sapere come strumento necessario per organizzare la propria vita. Di questo sono piene le cronache, e non s ...[continua]
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