Il cuore dell'Europa
cosa sta succedendo
Una Città n° 284 / 2022 maggio-giugno
Intervista a Raphaël Glucksmann
Realizzata da Barbara Bertoncin, Bettina Foa
IL CUORE DELL'EUROPA
Ricordiamoci che gli ucraini nel 2014 scesero in piazza con le bandiere dell’Unione europea; ora lì è in gioco l’avvenire dell’Europa per i prossimi decenni; oltre al sostegno militare, a sanzioni più efficaci, è decisiva l’entrata dell’Ucraina nella Ue; la necessità di una forte difesa europea a fronte del fascismo espansionista russo e quella di liberarsi della mentalità da puri “consumatori”, innanzitutto nei rapporti con la Cina. Intervista a Raphaël Glucksmann.
Raphaël Glucksmann, saggista e politico francese, fondatore di Place publique, è eurodeputato e presidente della Commissione del Parlamento europeo sulle ingerenze straniere nei processi democratici europei.
Tuo padre già vent’anni fa aveva messo in guardia sui pericoli di una perdurante forma di imperialismo della Russia di Putin e denunciato l’inerzia dell’Europa e dell’Occidente di fronte alla guerra in Cecenia...
Sì, ma all’epoca nessuno l’ha ascoltato. È stata una sconfitta strategica dell’Europa.
Vorremmo parlare della situazione in Ucraina e di cosa si può fare.
Prima di tutto dobbiamo ricordare che gli ucraini oggi combattono per la loro libertà, ma anche per la nostra. A essere in gioco è il continente europeo e il suo avvenire: se permettiamo alla Russia di Vladimir Putin di vincere questa guerra, di ottenere dei benefici dalla sua aggressione, allora non avremo più pace e sicurezza in Europa per molti anni. Deve essere chiaro che le decisioni che prendiamo o non prendiamo oggi impegnano per i decenni a venire il nostro continente e non solamente l’Ucraina. Stiamo vivendo un momento fondamentale nella storia dell’Europa: quello che si gioca a Kiev avrà un impatto per tutti noi sul medio e lungo termine.
Ora, sappiamo che non possiamo intervenire militarmente, perché non possiamo rischiare un confronto militare diretto con la Russia di Putin. Ma proprio per questo bisogna fare tutto il resto. Cos’è tutto il resto? Intanto delle sanzioni efficaci. Efficaci vuol dire delle sanzioni che colpiscano finanziariamente il regime di Putin e la sua macchina da guerra. Questo oggi non sta accadendo. In realtà, non abbiamo mai importato, in valore ma anche in volume, tanto gas russo come dall’inizio dell’invasione. In questo momento stiamo finanziando il regime che allo stesso tempo condanniamo.
In secondo luogo, dobbiamo fornire all’Ucraina un aiuto militare adeguato. Non stiamo facendo neanche questo. Certamente stiamo fornendo armi agli ucraini, ma con il contagocce e questo non è sufficiente.
La terza cosa che possiamo fare -questo è il significato della recente visita a Kiev di Macron, Draghi e Scholz- è mostrare che c’è una luce in fondo al tunnel, che c’è un orizzonte per gli ucraini, che è l’adesione all’Ue. Si tratta di un punto fondamentale, non perché questo fermerà la guerra, ma perché mostrerà a coloro che sono oggi vittime di un’aggressione fascista che c’è un futuro per loro; è un modo di riconoscere che l’Ucraina è il cuore dell’Europa e che il senso dell’Europa oggi si gioca molto di più a Kiev che a Bruxelles.
È un passaggio cruciale anche perché il 50% dell’esito di questa guerra dipende dal morale degli ucraini, quindi non basta fornire loro l’aiuto militare e sanzionare la Russia, hanno bisogno di una prospettiva chiara sull’adesione all’Ue.
Cosa pensi della proposta di Macron di una “comunità politica europea” allargata all’Ucraina?
Devo dire che sono scettico su qualsiasi manovra che suoni dilatoria rispetto alle scelte da fare sul futuro status dell’Ucraina. Se durante il periodo dei negoziati per l’adesione si crea una struttura che integri l’Ucraina e altri paesi in una comunità politica e di sicurezza collettiva, allora sì, perché no?
Ma se questa sorta di anticamera diventa un progetto a se stante, allora è un disastro.
Un’idea analoga era stata proposta da Mitterrand ai tempi del primo allargamento a est ed era stata rifiutata da Vaclav Havel che aveva commentato: “Noi non siamo candidati all’anticamera, siamo candidati all’appartamento principale”. Di nuovo, penso che dobbiamo essere più seri. In questo momento è fondamentale dare un messaggio chiaro e inequivocabile sul fatto che l’Ucraina è un paese candidato e cominciare subito a lavorare alla sua adesione all’Ue. Tanto più che ci sono delle riforme da fare, in primis la lotta contro la corruzione e le oligarchie, la trasposizione delle norme comunitarie nell’ordinamento nazionale, insomma, il processo è lungo. Per questo tutto ciò che può dare l’impressione che si cerchi di sfuggire alla questione principale (che è l’adesione) va messo da parte secondo me.
Perché è così importante che si avvii l’iter di adesione dell’Ucraina all’Unione europea?
Perché, contrariamente a quello che sostengono molti commentatori, la guerra in Ucraina, che è cominciata nel 2014, non è legata alla Nato, ma all’aspirazione degli ucraini a entrare in Europa. La rivoluzione del 2013-2014 -io c’ero- è scoppiata quando il presidente Janukovyc ha rifiutato di firmare l’accordo di associazione con l’Unione europea. E, attenzione, i giovani ucraini sono scesi in piazza, non con le bandiere della Nato o degli Stati Uniti, ma con quelle dell’Unione europea. Ho visto gli studenti di Kiev affrontare i cecchini su Maidan con quelle bandiere. Si sente sempre dire che, a differenza delle bandiere nazionali, con quella dell’Unione europea non ci può essere alcun legame emotivo, perché nessuno è mai morto sotto quella bandiera. Ebbene a Kiev nel 2014 le persone sono morte con la bandiera europea stretta tra le mani.
Lo statuto di paese candidato è stato offerto all’Ucraina e alla Moldavia, ma non alla Georgia, paese dove hai trascorso alcuni anni.
La responsabilità di questa situazione è soprattutto della Georgia, dove c’è un governo che ha scelto di opprimere l’opposizione e i media e di tenere una posizione ambigua sull’Ucraina. Peccato, perché sarebbe stata un’occasione storica per la Georgia di unirsi all’Ucraina e alla Moldavia in questo processo di adesione all’Ue. Io sono innamorato della Georgia e del popolo georgiano e questo mi rattrista molto, tuttavia, ripeto, la responsabilità è prima di tutto del governo georgiano e in particolare dell’oligarca Ivanishvili, che controlla la scena politica georgiana e che sta sprecando questa opportunità storica.
È tragico, perché la Georgia è stato il primo dei paesi del partenariato orientale a fare la scelta dell’Unione europea. Guarda caso è stato anche il primo paese aggredito da Putin nel 2008, quando i carri armati russi hanno invaso il suo territorio. Gli europei all’epoca hanno addossato le colpe alla Georgia negando qualsiasi minima solidarietà ai georgiani, che quindi sono stati i primi a pagare per aver scelto di guardare all’Europa. Purtroppo oggi il governo georgiano ha compiuto la scelta opposta.
Io sono sempre stato molto critico verso le élite europee, in questo caso credo però che non avessero altra scelta: sono state obbligate a fare una distinzione, perché in Georgia le cose vanno molto male e il regime al potere rifiuta di prendere posizione tra l’Ucraina e la Russia, tra l’Europa e la Russia.
Ci sono dei momenti nella storia in cui non si può rimanere in una zona grigia, in cui si è obbligati a fare una scelta chiara. Non si può esprimere la volontà di essere integrati nell’Unione europea e mantenere un rapporto ambiguo con Vladimir Putin. Oggi stiamo vivendo un momento di necessaria chiarificazione a tutti i livelli, nelle nostre società, ma anche dentro ciascuno di noi.
Oggi il governo georgiano mette in prigione i vecchi dirigenti europeisti, i giornalisti, organizza delle manifestazioni per attaccare i movimenti a favore dei diritti delle minoranze sessuali, realizza delle campagne detestabili contro i dirigenti europei e mantiene rapporti ambigui con personalità russe ora soggette a sanzioni. È davvero un peccato: i georgiani hanno bussato alle porte dell’Ue quando la porta era chiusa e oggi che la porta si apre, il governo si rifiuta di bussare. Secondo me è comunque una fase temporanea, perché l’80% dei georgiani è a favore dell’integrazione europea, quindi a un certo punto la situazione cambierà.
Quale sarà in futuro il rapporto tra Nato e Unione europea? Riusciremo a realizzare un vero sistema di difesa europeo?
Finalmente l’Europa si pone il problema della sicurezza e della difesa comune. Possiamo dire che fino a ora siamo stati un’Unione adolescente: non abbiamo mai accettato di passare all’età adulta, e cioè di capire che la storia è tragica, che abbiamo degli avversari e che dobbiamo quindi prendere seriamente le questioni della sicurezza e della difesa. Abbiamo rimosso questi temi per trenta, quarant’anni, oggi è arrivato il momento di affrontare la sfida di una difesa europea autonoma.
Non è per sfiducia o ostilità nei confronti degli Stati Uniti, e tuttavia la sicurezza dell’Europa non può dipendere dai risultati delle elezioni in Michigan ogni quattro anni. Chiedo: cosa pensiamo di fare se Trump vince di nuovo le elezioni e un paese europeo viene invaso? Come possiamo trovare normale che un’Unione europea così ricca, sviluppata e avanzata faccia dipendere la sua sicurezza dal voto di alcune contee del Michigan con cui non abbiamo alcun rapporto? Possibile che noi europei ogni quattro anni passiamo le notti in bianco in attesa dei risultati delle elezioni americane? È una situazione a dir poco ridicola!
Dobbiamo essere seri e assumerci la responsabilità della nostra sicurezza. Ripeto, non per uscire dalla Nato, ma per non dipendere esclusivamente dagli Stati Uniti, con cui restiamo comunque in rapporto. A me pare che non abbiamo altra scelta.
Voglio dire un’altra cosa. Oggi noi europei siamo prevalentemente dei consumatori: dei consumatori di beni prodotti in Cina, dei consumatori di energia venduta dalla Russia, dei consumatori di sicurezza prodotta negli Stati uniti. Ecco, dobbiamo smettere di essere solo dei consumatori e ritrovare una mentalità da produttori. Dobbiamo essere capaci di produrre noi stessi la nostra propria sicurezza, in cooperazione con i nostri alleati. E poi dobbiamo metterci in grado di produrre dei beni nei settori strategici, nelle energie rinnovabili…
Qui per me sta la chiave di tutto. È come nella dialettica servo-padrone di Hegel. Il padrone affida al servo l’insieme delle funzioni produttive, il servo produce tutto e il padrone ne usufruisce. E così il padrone diventa servo dei suoi servi e si realizza un’inversione dei rapporti di forza in cui il servo prende il posto del padrone.
Ecco, è questo che è successo a livello mondiale, per esempio nel rapporto tra l’Europa e la Cina: siamo diventati schiavi di chi produce i beni di cui usufruiamo.
Rimanere intrappolati in una dimensione di puro consumo conduce all’impotenza, al fatalismo e a una forma di disinvoltura, di superficialità di fronte alla storia. Dobbiamo tornare a essere dei produttori e produrre noi stessi la nostra propria sicurezza collettiva, in cooperazione con i nostri alleati.
Per questo il discorso sull’autonomia strategica portato avanti dalla Francia è così importante. Non si tratta di operare una rottura dei legami transatlantici, ma l’Europa deve avere una sua industria di armamenti, un suo sistema di protezione e dissuasione. Mi rendo conto che si tratta di una specie di rivoluzione culturale a livello europeo, ma è un passaggio necessario, che riguarda questa come altre questioni. Dobbiamo tornare a essere attori della nostra storia.
Come vedi i rapporti futuri con la Russia? Nelle ultime settimane qualche analista ha parlato della necessità di “salvare la faccia” a Putin. Per ora è la Russia che sta umiliando noi...
Sono vent’anni che il regime russo ci umilia e che soprattutto umilia i paesi dell’ex blocco sovietico, i siriani, ecc. Bisogna accettare la realtà. Paradossalmente, sono coloro che ripetono che bisogna essere realisti a vivere in un’illusione. La realtà è infatti che in Russia esiste un regime che da oltre vent’anni fonda il suo potere sull’idea di uno scontro con l’Europa, su una dinamica guerriera. Non si tratta solamente di Vladimir Putin. È un intero sistema teso a mobilitare la società in chiave bellica rispetto all’Occidente e l’Europa.
Una dinamica che vede l’appoggio almeno di una parte della popolazione russa attorno a questa idea dello scontro. In Europa abbiamo conosciuto questo fenomeno, in cui la guerra diventa un progetto di mobilitazione: si chiama fascismo. Parliamo di un processo che può durare anni e che porterà necessariamente ad altri conflitti, perché la costruzione di un nemico è connaturata a questo tipo di regime. Pertanto bisogna riconoscere questa situazione, riconoscere che intrinsecamente (non congiunturalmente) il regime di Putin si fonda su un rapporto conflittuale con noi.
A un certo punto occorrerà accettare questo confronto, fare in modo che non degeneri, e al contempo stabilire un rapporto di forza duraturo. Perché questo avvenga non bastano sporadiche dichiarazioni, servono una costanza e una coerenza a cui non siamo più abituati.
Quando questo accadrà vorrà dire che saremo finalmente usciti da questo nostro irenismo e che avremo compreso che abbiamo degli avversari strategici e che dureranno nel tempo.
Per vent’anni non abbiamo voluto ascoltare cosa dicevano Putin e i suoi ideologi. Non abbiamo prestato sufficiente attenzione a quello che ha detto Putin all’inizio del suo regno quando ha definito la fine dell’Unione sovietica come la “catastrofe peggiore del Ventesimo secolo”. Un’espressione che già allora indicava una volontà di rivincita, delle frontiere da cambiare, una guerra da combattere... È sempre stato questo il suo progetto principale, per cui i rapporti sono destinati a restare conflittuali finché questo regime rimarrà in piedi. Se tutto questo è vero, non ha alcun senso parlare di “salvare la faccia” a Putin.
Anzi, una tale visione segnala anche una certa arroganza da parte nostra, è come pensare che a Putin piacerebbe essere in buoni rapporti con noi e che è solo maldestro e sta facendo degli errori. Ma per lui la guerra in Ucraina non è un errore, è la necessaria conclusione della logica su cui si fonda il suo regime.
Davvero, bisogna essere molto presuntuosi per pensare di dover aiutare Putin a uscire da una situazione che lui non trova affatto problematica. Al contrario, lui è evidentemente convinto che noi siamo dei deboli e comunque incapaci di raccogliere il guanto di sfida che da vent’anni ci getta.
Io auspico che a un certo punto ci mostreremo sufficientemente fermi e duri e anche pronti a pagare un prezzo per la nostra democrazia e la nostra libertà. Anche se questo prezzo fosse l’1% del Pil legato alle sanzioni sul gas, confido che saremo pronti a fare dei sacrifici, perché -attenzione- se non saremo disposti a pagare questo prezzo oggi, siamo destinati a pagarne uno molto più alto in futuro. Non solo, se le nostre azioni saranno all’altezza della situazione, dissuaderemo Putin dall’andare avanti su questa strada.
Se invece esitiamo, tergiversiamo, se diamo l’impressione di non essere disposti a pagare neanche un prezzo minimo, e anzi di esser pronti a sacrificare l’Ucraina per non avere ritorsioni in prima persona, beh, allora dobbiamo sapere che avremo più conflitti, più guerre, e alla fine andremo verso una sconfitta.
È questa la partita in gioco oggi.
Da tempo sei impegnato sul fronte delle ingerenze straniere nei processi democratici europei...
È da più di dieci anni che il regime russo non solamente invade i paesi vicini, ma attacca le nostre democrazie europee al loro interno e fino a ora le nostre reazioni sono state estremamente deboli.
Dovete sapere che durante la pandemia, il regime russo ha mandato i suoi hacker a colpire l’Agenzia europea per i farmaci; inoltre ci sono stati degli attacchi contro degli ospedali in Irlanda proprio durante il picco delle ospedalizzazioni.
Come possiamo definire i rapporti con un regime che attacca i nostri ospedali durante una pandemia? Non sarà la guerra aperta, ma non è nemmeno la pace. Viviamo in una dimensione di conflittualità generalizzata, che è ideologica, politica, economica e di cui dobbiamo farci carico. In questo mondo tragico, se non assumiamo il conflitto con colui che ci provoca e ci attacca continuamente, di fatto gli concediamo la vittoria e lo autorizziamo a continuare l’aggressione. Qualsiasi esitazione mostreremo nei confronti del regime di Putin sarà un invito ad andare oltre.
Per questo non mi stanco di ripetere che non è solamente per l’Ucraina che dobbiamo essere fermi e duri oggi. È per noi stessi. Se non lo vogliamo fare per altruismo, per solidarietà con l’Ucraina, come dovremmo fare, allora facciamolo per egoismo.
Io oggi invito gli europei a essere egoisti, che significa ad aiutare gli ucraini molto di più di quanto già non facciano, perché alla fine è nel nostro interesse che Putin perda. I dirigenti europei dell’ovest, contrariamente a quelli all’est, faticano a formulare questo nostro obiettivo, cioè la sconfitta della macchina da guerra russa. Eppure è chiaro che si tratta di un obiettivo strategico cruciale, direi vitale per noi, perché senza questa sconfitta ci aspettano più conflitti e più guerre negli anni a venire.
Alcuni vedono o addirittura auspicano un intervento della Cina come possibile risolutore. Tu da tempi denunci le violazioni contro gli uiguri. Come vedi il ruolo di questo paese?
Quella di credere che la Cina possa contribuire a risolvere questa situazione è l’ennesima illusione. La Cina non ha alcun interesse ad aiutarci a risolvere il conflitto in Ucraina, né su qualsiasi altra cosa. Non dobbiamo riprodurre l’illusione in cui siamo vissuti per vent’anni rispetto a Putin e commettere gli stessi errori con la Cina, cioè rifiutarci di vedere l’aggressività di Xi Jinping e del regime totalitario cinese.
Forse la Cina e la Russia possono avere delle strategie differenti, ma c’è una cosa che unisce questi due paesi ed è la loro ostilità nei nostri riguardi, la loro volontà di far vacillare la potenza europea e occidentale, la loro competizione, non solamente commerciale, ma anche ideologica, politica, culturale con l’Occidente. E quindi la Cina non ci aiuterà mai sulla questione dell’Ucraina perché il suo interesse è che noi perdiamo.
Se noi invece manteniamo una posizione ferma sull’Ucraina, manderemo un messaggio anche al regime cinese, che sta osservando con grande attenzione le nostre mosse, pensando evidentemente a Taiwan. Se i cinesi vedono che gli americani e gli europei sono deboli a Kiev, che Putin può ottenere delle vittorie con la sua politica di aggressione e di guerra, allora c’è veramente la possibilità che prendano la decisione di invadere Taiwan.
Se noi invece mostriamo che l’aggressione, l’invasione, la guerra, il fascismo, le città rase al suolo, comportarono dei prezzi molto alti; di più: che un’azione come questa porta alla sconfitta, allora i cinesi ci penseranno due volte prima di mandare le loro navi e i loro aerei contro la democrazia taiwanese.
Questo è essenziale. Una sconfitta dell’Europa a Kiev sarebbe invece un segnale che tutto è possibile… Aiutando l’Ucraina oggi, non difendiamo solamente il futuro dell’Europa, ma anche la pace e la democrazia nel mondo.
(a cura di Barbara Bertoncin e Bettina Foa)
Tuo padre già vent’anni fa aveva messo in guardia sui pericoli di una perdurante forma di imperialismo della Russia di Putin e denunciato l’inerzia dell’Europa e dell’Occidente di fronte alla guerra in Cecenia...
Sì, ma all’epoca nessuno l’ha ascoltato. È stata una sconfitta strategica dell’Europa.
Vorremmo parlare della situazione in Ucraina e di cosa si può fare.
Prima di tutto dobbiamo ricordare che gli ucraini oggi combattono per la loro libertà, ma anche per la nostra. A essere in gioco è il continente europeo e il suo avvenire: se permettiamo alla Russia di Vladimir Putin di vincere questa guerra, di ottenere dei benefici dalla sua aggressione, allora non avremo più pace e sicurezza in Europa per molti anni. Deve essere chiaro che le decisioni che prendiamo o non prendiamo oggi impegnano per i decenni a venire il nostro continente e non solamente l’Ucraina. Stiamo vivendo un momento fondamentale nella storia dell’Europa: quello che si gioca a Kiev avrà un impatto per tutti noi sul medio e lungo termine.
Ora, sappiamo che non possiamo intervenire militarmente, perché non possiamo rischiare un confronto militare diretto con la Russia di Putin. Ma proprio per questo bisogna fare tutto il resto. Cos’è tutto il resto? Intanto delle sanzioni efficaci. Efficaci vuol dire delle sanzioni che colpiscano finanziariamente il regime di Putin e la sua macchina da guerra. Questo oggi non sta accadendo. In realtà, non abbiamo mai importato, in valore ma anche in volume, tanto gas russo come dall’inizio dell’invasione. In questo momento stiamo finanziando il regime che allo stesso tempo condanniamo.
In secondo luogo, dobbiamo fornire all’Ucraina un aiuto militare adeguato. Non stiamo facendo neanche questo. Certamente stiamo fornendo armi agli ucraini, ma con il contagocce e questo non è sufficiente.
La terza cosa che possiamo fare -questo è il significato della recente visita a Kiev di Macron, Draghi e Scholz- è mostrare che c’è una luce in fondo al tunnel, che c’è un orizzonte per gli ucraini, che è l’adesione all’Ue. Si tratta di un punto fondamentale, non perché questo fermerà la guerra, ma perché mostrerà a coloro che sono oggi vittime di un’aggressione fascista che c’è un futuro per loro; è un modo di riconoscere che l’Ucraina è il cuore dell’Europa e che il senso dell’Europa oggi si gioca molto di più a Kiev che a Bruxelles.
È un passaggio cruciale anche perché il 50% dell’esito di questa guerra dipende dal morale degli ucraini, quindi non basta fornire loro l’aiuto militare e sanzionare la Russia, hanno bisogno di una prospettiva chiara sull’adesione all’Ue.
Cosa pensi della proposta di Macron di una “comunità politica europea” allargata all’Ucraina?
Devo dire che sono scettico su qualsiasi manovra che suoni dilatoria rispetto alle scelte da fare sul futuro status dell’Ucraina. Se durante il periodo dei negoziati per l’adesione si crea una struttura che integri l’Ucraina e altri paesi in una comunità politica e di sicurezza collettiva, allora sì, perché no?
Ma se questa sorta di anticamera diventa un progetto a se stante, allora è un disastro.
Un’idea analoga era stata proposta da Mitterrand ai tempi del primo allargamento a est ed era stata rifiutata da Vaclav Havel che aveva commentato: “Noi non siamo candidati all’anticamera, siamo candidati all’appartamento principale”. Di nuovo, penso che dobbiamo essere più seri. In questo momento è fondamentale dare un messaggio chiaro e inequivocabile sul fatto che l’Ucraina è un paese candidato e cominciare subito a lavorare alla sua adesione all’Ue. Tanto più che ci sono delle riforme da fare, in primis la lotta contro la corruzione e le oligarchie, la trasposizione delle norme comunitarie nell’ordinamento nazionale, insomma, il processo è lungo. Per questo tutto ciò che può dare l’impressione che si cerchi di sfuggire alla questione principale (che è l’adesione) va messo da parte secondo me.
Perché è così importante che si avvii l’iter di adesione dell’Ucraina all’Unione europea?
Perché, contrariamente a quello che sostengono molti commentatori, la guerra in Ucraina, che è cominciata nel 2014, non è legata alla Nato, ma all’aspirazione degli ucraini a entrare in Europa. La rivoluzione del 2013-2014 -io c’ero- è scoppiata quando il presidente Janukovyc ha rifiutato di firmare l’accordo di associazione con l’Unione europea. E, attenzione, i giovani ucraini sono scesi in piazza, non con le bandiere della Nato o degli Stati Uniti, ma con quelle dell’Unione europea. Ho visto gli studenti di Kiev affrontare i cecchini su Maidan con quelle bandiere. Si sente sempre dire che, a differenza delle bandiere nazionali, con quella dell’Unione europea non ci può essere alcun legame emotivo, perché nessuno è mai morto sotto quella bandiera. Ebbene a Kiev nel 2014 le persone sono morte con la bandiera europea stretta tra le mani.
Lo statuto di paese candidato è stato offerto all’Ucraina e alla Moldavia, ma non alla Georgia, paese dove hai trascorso alcuni anni.
La responsabilità di questa situazione è soprattutto della Georgia, dove c’è un governo che ha scelto di opprimere l’opposizione e i media e di tenere una posizione ambigua sull’Ucraina. Peccato, perché sarebbe stata un’occasione storica per la Georgia di unirsi all’Ucraina e alla Moldavia in questo processo di adesione all’Ue. Io sono innamorato della Georgia e del popolo georgiano e questo mi rattrista molto, tuttavia, ripeto, la responsabilità è prima di tutto del governo georgiano e in particolare dell’oligarca Ivanishvili, che controlla la scena politica georgiana e che sta sprecando questa opportunità storica.
È tragico, perché la Georgia è stato il primo dei paesi del partenariato orientale a fare la scelta dell’Unione europea. Guarda caso è stato anche il primo paese aggredito da Putin nel 2008, quando i carri armati russi hanno invaso il suo territorio. Gli europei all’epoca hanno addossato le colpe alla Georgia negando qualsiasi minima solidarietà ai georgiani, che quindi sono stati i primi a pagare per aver scelto di guardare all’Europa. Purtroppo oggi il governo georgiano ha compiuto la scelta opposta.
Io sono sempre stato molto critico verso le élite europee, in questo caso credo però che non avessero altra scelta: sono state obbligate a fare una distinzione, perché in Georgia le cose vanno molto male e il regime al potere rifiuta di prendere posizione tra l’Ucraina e la Russia, tra l’Europa e la Russia.
Ci sono dei momenti nella storia in cui non si può rimanere in una zona grigia, in cui si è obbligati a fare una scelta chiara. Non si può esprimere la volontà di essere integrati nell’Unione europea e mantenere un rapporto ambiguo con Vladimir Putin. Oggi stiamo vivendo un momento di necessaria chiarificazione a tutti i livelli, nelle nostre società, ma anche dentro ciascuno di noi.
Oggi il governo georgiano mette in prigione i vecchi dirigenti europeisti, i giornalisti, organizza delle manifestazioni per attaccare i movimenti a favore dei diritti delle minoranze sessuali, realizza delle campagne detestabili contro i dirigenti europei e mantiene rapporti ambigui con personalità russe ora soggette a sanzioni. È davvero un peccato: i georgiani hanno bussato alle porte dell’Ue quando la porta era chiusa e oggi che la porta si apre, il governo si rifiuta di bussare. Secondo me è comunque una fase temporanea, perché l’80% dei georgiani è a favore dell’integrazione europea, quindi a un certo punto la situazione cambierà.
Quale sarà in futuro il rapporto tra Nato e Unione europea? Riusciremo a realizzare un vero sistema di difesa europeo?
Finalmente l’Europa si pone il problema della sicurezza e della difesa comune. Possiamo dire che fino a ora siamo stati un’Unione adolescente: non abbiamo mai accettato di passare all’età adulta, e cioè di capire che la storia è tragica, che abbiamo degli avversari e che dobbiamo quindi prendere seriamente le questioni della sicurezza e della difesa. Abbiamo rimosso questi temi per trenta, quarant’anni, oggi è arrivato il momento di affrontare la sfida di una difesa europea autonoma.
Non è per sfiducia o ostilità nei confronti degli Stati Uniti, e tuttavia la sicurezza dell’Europa non può dipendere dai risultati delle elezioni in Michigan ogni quattro anni. Chiedo: cosa pensiamo di fare se Trump vince di nuovo le elezioni e un paese europeo viene invaso? Come possiamo trovare normale che un’Unione europea così ricca, sviluppata e avanzata faccia dipendere la sua sicurezza dal voto di alcune contee del Michigan con cui non abbiamo alcun rapporto? Possibile che noi europei ogni quattro anni passiamo le notti in bianco in attesa dei risultati delle elezioni americane? È una situazione a dir poco ridicola!
Dobbiamo essere seri e assumerci la responsabilità della nostra sicurezza. Ripeto, non per uscire dalla Nato, ma per non dipendere esclusivamente dagli Stati Uniti, con cui restiamo comunque in rapporto. A me pare che non abbiamo altra scelta.
Voglio dire un’altra cosa. Oggi noi europei siamo prevalentemente dei consumatori: dei consumatori di beni prodotti in Cina, dei consumatori di energia venduta dalla Russia, dei consumatori di sicurezza prodotta negli Stati uniti. Ecco, dobbiamo smettere di essere solo dei consumatori e ritrovare una mentalità da produttori. Dobbiamo essere capaci di produrre noi stessi la nostra propria sicurezza, in cooperazione con i nostri alleati. E poi dobbiamo metterci in grado di produrre dei beni nei settori strategici, nelle energie rinnovabili…
Qui per me sta la chiave di tutto. È come nella dialettica servo-padrone di Hegel. Il padrone affida al servo l’insieme delle funzioni produttive, il servo produce tutto e il padrone ne usufruisce. E così il padrone diventa servo dei suoi servi e si realizza un’inversione dei rapporti di forza in cui il servo prende il posto del padrone.
Ecco, è questo che è successo a livello mondiale, per esempio nel rapporto tra l’Europa e la Cina: siamo diventati schiavi di chi produce i beni di cui usufruiamo.
Rimanere intrappolati in una dimensione di puro consumo conduce all’impotenza, al fatalismo e a una forma di disinvoltura, di superficialità di fronte alla storia. Dobbiamo tornare a essere dei produttori e produrre noi stessi la nostra propria sicurezza collettiva, in cooperazione con i nostri alleati.
Per questo il discorso sull’autonomia strategica portato avanti dalla Francia è così importante. Non si tratta di operare una rottura dei legami transatlantici, ma l’Europa deve avere una sua industria di armamenti, un suo sistema di protezione e dissuasione. Mi rendo conto che si tratta di una specie di rivoluzione culturale a livello europeo, ma è un passaggio necessario, che riguarda questa come altre questioni. Dobbiamo tornare a essere attori della nostra storia.
Come vedi i rapporti futuri con la Russia? Nelle ultime settimane qualche analista ha parlato della necessità di “salvare la faccia” a Putin. Per ora è la Russia che sta umiliando noi...
Sono vent’anni che il regime russo ci umilia e che soprattutto umilia i paesi dell’ex blocco sovietico, i siriani, ecc. Bisogna accettare la realtà. Paradossalmente, sono coloro che ripetono che bisogna essere realisti a vivere in un’illusione. La realtà è infatti che in Russia esiste un regime che da oltre vent’anni fonda il suo potere sull’idea di uno scontro con l’Europa, su una dinamica guerriera. Non si tratta solamente di Vladimir Putin. È un intero sistema teso a mobilitare la società in chiave bellica rispetto all’Occidente e l’Europa.
Una dinamica che vede l’appoggio almeno di una parte della popolazione russa attorno a questa idea dello scontro. In Europa abbiamo conosciuto questo fenomeno, in cui la guerra diventa un progetto di mobilitazione: si chiama fascismo. Parliamo di un processo che può durare anni e che porterà necessariamente ad altri conflitti, perché la costruzione di un nemico è connaturata a questo tipo di regime. Pertanto bisogna riconoscere questa situazione, riconoscere che intrinsecamente (non congiunturalmente) il regime di Putin si fonda su un rapporto conflittuale con noi.
A un certo punto occorrerà accettare questo confronto, fare in modo che non degeneri, e al contempo stabilire un rapporto di forza duraturo. Perché questo avvenga non bastano sporadiche dichiarazioni, servono una costanza e una coerenza a cui non siamo più abituati.
Quando questo accadrà vorrà dire che saremo finalmente usciti da questo nostro irenismo e che avremo compreso che abbiamo degli avversari strategici e che dureranno nel tempo.
Per vent’anni non abbiamo voluto ascoltare cosa dicevano Putin e i suoi ideologi. Non abbiamo prestato sufficiente attenzione a quello che ha detto Putin all’inizio del suo regno quando ha definito la fine dell’Unione sovietica come la “catastrofe peggiore del Ventesimo secolo”. Un’espressione che già allora indicava una volontà di rivincita, delle frontiere da cambiare, una guerra da combattere... È sempre stato questo il suo progetto principale, per cui i rapporti sono destinati a restare conflittuali finché questo regime rimarrà in piedi. Se tutto questo è vero, non ha alcun senso parlare di “salvare la faccia” a Putin.
Anzi, una tale visione segnala anche una certa arroganza da parte nostra, è come pensare che a Putin piacerebbe essere in buoni rapporti con noi e che è solo maldestro e sta facendo degli errori. Ma per lui la guerra in Ucraina non è un errore, è la necessaria conclusione della logica su cui si fonda il suo regime.
Davvero, bisogna essere molto presuntuosi per pensare di dover aiutare Putin a uscire da una situazione che lui non trova affatto problematica. Al contrario, lui è evidentemente convinto che noi siamo dei deboli e comunque incapaci di raccogliere il guanto di sfida che da vent’anni ci getta.
Io auspico che a un certo punto ci mostreremo sufficientemente fermi e duri e anche pronti a pagare un prezzo per la nostra democrazia e la nostra libertà. Anche se questo prezzo fosse l’1% del Pil legato alle sanzioni sul gas, confido che saremo pronti a fare dei sacrifici, perché -attenzione- se non saremo disposti a pagare questo prezzo oggi, siamo destinati a pagarne uno molto più alto in futuro. Non solo, se le nostre azioni saranno all’altezza della situazione, dissuaderemo Putin dall’andare avanti su questa strada.
Se invece esitiamo, tergiversiamo, se diamo l’impressione di non essere disposti a pagare neanche un prezzo minimo, e anzi di esser pronti a sacrificare l’Ucraina per non avere ritorsioni in prima persona, beh, allora dobbiamo sapere che avremo più conflitti, più guerre, e alla fine andremo verso una sconfitta.
È questa la partita in gioco oggi.
Da tempo sei impegnato sul fronte delle ingerenze straniere nei processi democratici europei...
È da più di dieci anni che il regime russo non solamente invade i paesi vicini, ma attacca le nostre democrazie europee al loro interno e fino a ora le nostre reazioni sono state estremamente deboli.
Dovete sapere che durante la pandemia, il regime russo ha mandato i suoi hacker a colpire l’Agenzia europea per i farmaci; inoltre ci sono stati degli attacchi contro degli ospedali in Irlanda proprio durante il picco delle ospedalizzazioni.
Come possiamo definire i rapporti con un regime che attacca i nostri ospedali durante una pandemia? Non sarà la guerra aperta, ma non è nemmeno la pace. Viviamo in una dimensione di conflittualità generalizzata, che è ideologica, politica, economica e di cui dobbiamo farci carico. In questo mondo tragico, se non assumiamo il conflitto con colui che ci provoca e ci attacca continuamente, di fatto gli concediamo la vittoria e lo autorizziamo a continuare l’aggressione. Qualsiasi esitazione mostreremo nei confronti del regime di Putin sarà un invito ad andare oltre.
Per questo non mi stanco di ripetere che non è solamente per l’Ucraina che dobbiamo essere fermi e duri oggi. È per noi stessi. Se non lo vogliamo fare per altruismo, per solidarietà con l’Ucraina, come dovremmo fare, allora facciamolo per egoismo.
Io oggi invito gli europei a essere egoisti, che significa ad aiutare gli ucraini molto di più di quanto già non facciano, perché alla fine è nel nostro interesse che Putin perda. I dirigenti europei dell’ovest, contrariamente a quelli all’est, faticano a formulare questo nostro obiettivo, cioè la sconfitta della macchina da guerra russa. Eppure è chiaro che si tratta di un obiettivo strategico cruciale, direi vitale per noi, perché senza questa sconfitta ci aspettano più conflitti e più guerre negli anni a venire.
Alcuni vedono o addirittura auspicano un intervento della Cina come possibile risolutore. Tu da tempi denunci le violazioni contro gli uiguri. Come vedi il ruolo di questo paese?
Quella di credere che la Cina possa contribuire a risolvere questa situazione è l’ennesima illusione. La Cina non ha alcun interesse ad aiutarci a risolvere il conflitto in Ucraina, né su qualsiasi altra cosa. Non dobbiamo riprodurre l’illusione in cui siamo vissuti per vent’anni rispetto a Putin e commettere gli stessi errori con la Cina, cioè rifiutarci di vedere l’aggressività di Xi Jinping e del regime totalitario cinese.
Forse la Cina e la Russia possono avere delle strategie differenti, ma c’è una cosa che unisce questi due paesi ed è la loro ostilità nei nostri riguardi, la loro volontà di far vacillare la potenza europea e occidentale, la loro competizione, non solamente commerciale, ma anche ideologica, politica, culturale con l’Occidente. E quindi la Cina non ci aiuterà mai sulla questione dell’Ucraina perché il suo interesse è che noi perdiamo.
Se noi invece manteniamo una posizione ferma sull’Ucraina, manderemo un messaggio anche al regime cinese, che sta osservando con grande attenzione le nostre mosse, pensando evidentemente a Taiwan. Se i cinesi vedono che gli americani e gli europei sono deboli a Kiev, che Putin può ottenere delle vittorie con la sua politica di aggressione e di guerra, allora c’è veramente la possibilità che prendano la decisione di invadere Taiwan.
Se noi invece mostriamo che l’aggressione, l’invasione, la guerra, il fascismo, le città rase al suolo, comportarono dei prezzi molto alti; di più: che un’azione come questa porta alla sconfitta, allora i cinesi ci penseranno due volte prima di mandare le loro navi e i loro aerei contro la democrazia taiwanese.
Questo è essenziale. Una sconfitta dell’Europa a Kiev sarebbe invece un segnale che tutto è possibile… Aiutando l’Ucraina oggi, non difendiamo solamente il futuro dell’Europa, ma anche la pace e la democrazia nel mondo.
(a cura di Barbara Bertoncin e Bettina Foa)
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