Robi Damelin è nata a Johannesburg, in Sudafrica ed è immigrata in Israele nel 1967. Prima di allora era impegnata nel movimento anti-apartheid. Nel marzo del 2002, suo figlio David, 28 anni, è stato ucciso da un cecchino mentre prestava servizio militare come riserva.

Come sei entrata nel Parents Circle?

Ho aderito al Parents Circle quando mio figlio è stato ucciso per mano di un cecchino palestinese. Sono stata contattata da loro, che mi avevano sentito parlare a una manifestazione contro l’occupazione. Così mi hanno invitata per un weekend a Gerusalemme Est, dove ho incontrato famiglie palestinesi e israeliane che avevano in comune l’aver perso un parente. Quando ho visto quelle mamme palestinesi, ho capito che provavamo lo stesso dolore e che assieme saremmo potute essere una forza molto potente a favore della riconciliazione. In capo a tre mesi, ho lasciato il mio ufficio e ho cominciato a viaggiare in giro per il mondo con i partner palestinesi. Abbiamo parlato alla House of Commons, al Senato americano... dovunque ci invitassero andavamo a parlare. Ho presto capito che il nostro è un messaggio internazionale, che non vale solo per israeliani e palestinesi. Perché se noi, che siamo stati chiamati a pagare un prezzo tanto grande, siamo in grado di stare insieme e parlare con un’unica voce di riconciliazione e nonviolenza, sicuramente possiamo rappresentare un esempio anche per altri. Questo è l’impegno che mi sono presa dopo la morte di mio figlio.
Poi una notte ho sentito bussare alla porta, di nuovo, ed era l’esercito. Quando ho aperto mi sono vista davanti tre soldati; ho subito sbattuto loro la porta in faccia, non potevo ricevere altre brutte notizie. Ma loro hanno continuato a bussare, così alla fine gli ho aperto; mi volevano comunicare che avevano trovato il palestinese responsabile della morte di mio figlio David. Lì le cose sono diventate veramente difficili, perché da quel momento c’era una faccia che potevo associare a quell’assassinio.
Ho iniziato a chiedermi: ma tutte le cose di cui parlo, la riconciliazione, la nonviolenza, sono cose che dico con onestà? Mi ci sono voluti alcuni mesi, mesi in cui non riuscivo a dormire la notte, in cui mi sono interrogata se avessi ancora l’integrità morale per continuare a svolgere questo lavoro.
Alla fine ho scritto una lettera alla famiglia del cecchino. Ho detto loro chi ero, ho parlato di David, ma non prima di aver raccontato della nostra organizzazione, di noi palestinesi e israeliani che abbiamo perduto un parente stretto nel conflitto, e del fatto che siamo convinti che l’obiettivo di lungo termine sia di creare un ambiente favorevole per un futuro accordo di pace. In passato è stato firmato ogni sorta di pezzo di carta nel cortile della Casa Bianca, ma in realtà le persone non avevano idea di cosa stesse succedendo e di cosa questo comportasse. Il lavoro che abbiamo fatto e continuiamo a svolgere come Parents Circle è volto appunto a creare le condizioni per un processo di riconciliazione.
Nella lettera a quella famiglia ho parlato anche di David. Ho detto loro che era uno studente all’Università di Tel Aviv, che stava studiando per conseguire un master in filosofia dell’educazione, che faceva parte del movimento pacifista e non voleva svolgere il servizio militare nei territori occupati. I giovani israeliani che si trovano a fare il servizio militare devono affrontare dilemmi forti; lui e altri ufficiali avevano firmato una lettera in cui dichiaravano che non avrebbero operato nei territori occupati. Avrebbero svolto il servizio militare, ma non lì.
Quello è stato proprio un punto di svolta della mia vita. C’è un prima e un dopo. Lo spartiacque è determinato da ciò che decidi di fare in quella situazione. Molti genitori muoiono insieme ai figli, non in senso letterale, ma è come se scomparissero. Altri intitolano ai figli dei monumenti, delle biblioteche, io non sapevo cosa fare. Così ho deciso che avrei dedicato la mia vita a fare educazione alla pace, perché David era così e quella sarebbe stata la mia maniera per commemorarlo.
Sempre nella lettera ai genitori di quel cecchino, il cui nome è Tha'ir Kayid Hammad, avevo detto loro che ritenevo dovessimo incontrarci, che lo dovevamo ai nostri figli e ai nostri nipoti.
Due palestinesi hanno poi consegnato la mia missiva a quella famiglia; potete immaginare quanto fossero scioccati, mi dicevano, ah, se tutti sottoscrivessero questa lettera, sarebbe il segno che possiamo ottenere la pace.
In realtà mi aspettavo di ricevere una lettera già nei giorni successivi... non sono una persona particolarmente paziente. Ebbene, ci sono voluti tre anni per ricevere una risposta, direttamente dal cecchino, il quale mi ha scritto che ero pazza, che avrei dovuto stare alla larga dalla sua famiglia, e che lui già aveva ucciso dieci persone per la causa della Palestina libera.
Io però nel frattempo avevo saputo che da bambino aveva assistito all’omicidio brutale di suo zio, per mano dell’esercito israeliano, e che aveva perso altri due zii durante la rivolta della Seconda Intifada. Per cui ho pensato che fosse per quello che era caduto nella spirale della violenza, che forse quelle morti erano legate al suo bisogno di vendicarsi. Ho provato a incontrarlo, è una storia lunga, ma quando ho ricevuto la notifica, quella sorta di lettera che arrivava tramite un sito web, è stata comunque una sorta di liberazione, per me, perché la mia vita non era più appesa a una sua reazione.
Sono anche ritornata in Sudafrica, il mio paese d’origine, per realizzare un film sulla Commissione per la Verità e la Riconciliazione, per capire che lezione potessimo trarre da quella vicenda e cosa significasse il concetto di “perdono”.
In breve, questa è la mia storia.
Parliamo del 7 ottobre. Come avete reagito, come è stato influenzato il vostro lavoro?
Il paese è cambiato. Credo che soprattutto gli uomini, e in particolare i soldati, vivano un forte senso di umiliazione, perché è la prima volta che Hamas contrattacca e, sotto vari punti di vista, vince. La vita di ciascuno, qui in Israele, è interconnessa con quella degli altri, siamo un paese così piccolo che tutti conosciamo qualcuno che è rimasto ucciso, ferito o che è stato rapito il 7 ottobre. C’è così tanta rabbia, paura, dolore in tutti quanti. E tutti vorrebbero una soluzione istantanea. In più tutto il mondo sembra diventato esperto di Medio Oriente!
È incredibile. Non solo, il nostro conflitto si sta propagando negli altri paesi ­creando sempre più antisemitismo e islamofobia. Tutte cose che fanno paura. Nei miei viaggi negli Stati Uniti e a Londra ho percepito tutto questo e fenomeni analoghi si stanno registrando in Europa, nei campus, nelle scuole. Sembra che le persone non riescano a distinguere un ragazzo ebreo che studia medicina alla Georgetown University dal governo israeliano. Credo sia legittimo criticare il governo, ma ciò non dà certo il diritto di prendersela con un ragazzino ebreo che studia nel tuo stesso college, di perseguitarlo, di organizzare manifestazioni contro di lui. Cosa c’entra lui? Sì, c’è questa tendenza a trattare i conflitti in maniera approssimativa. Tra l'altro sembra che tutti si siano dimenticati della Cisgiordania, che è sotto coprifuoco dall’8 di ottobre. Questo significa che migliaia e migliaia di uomini non possono più venire in Israele a lavorare, un autentico disastro perché ne consegue che tutte queste persone da ottobre non hanno portato a casa un soldo. Ciò a sua volta produce un incremento della violenza domestica, cosa che succede sempre in periodo di guerra, sia in Israele che in Palestina. Pensiamo alle donne intrappolate a casa con i figli, perché in Cisgiordania nessuno di questi bambini va più a scuola. Non c’è libertà di movimento e i coloni fanno quello che gli pare senza dover render conto a nessuno, agiscono ormai fuori da ogni controllo e responsabilità, perfino incoraggiati da alcuni nostri parlamentari e da almeno un ministro. La Cisgiordania è davvero una pentola a pressione che può scoppiare in qualsiasi momento. Se non si interviene, tutto questo ci condurrà a qualcosa di ancora più terribile.
Per quanto riguarda noi di Parents Circle, è quasi un miracolo che riusciamo ancora a lavorare. Dopo questa intervista abbiamo una riunione dello staff, che ora conta circa diciotto persone. Abbiamo un ufficio a Beit Jala e uno a Tel Aviv, con due manager; per la prima volta il manager palestinese è una donna, cosa che mi rende molto felice. Ma è molto difficile lavorare insieme perché ognuno guarda i propri media. Guardare Al Jazeera o i notiziari israeliani è come vivere in due universi paralleli. Devi continuamente diffidare, chiederti chi sta dicendo la verità, quali notizie sono false, cosa è vero… Ci vorrebbe invece un senso di fiducia molto ben sviluppato per fidarsi l’uno dell’altro, per riuscire a dire quello che si pensa e trovare un interlocutore che ti ascolta con empatia, anche se non concorda con te.  Non è facile. Però andiamo avanti. In questo momento gran parte del nostro lavoro consiste nell’andare a far visita alle famiglie che hanno subìto un lutto. È una cosa penosa. Ricordo quando è stato ucciso David, le persone che per me hanno fatto la differenza sono state proprio le altre madri che avevano perso i figli, perché erano le uniche a potermi capire.
Mercoledì incontreremo alcune delle straordinarie famiglie che hanno avuto dei lutti il 7 ottobre. Maoz Inon è tra questi: i suoi genitori sono stati uccisi nel corso dell’attacco di Hamas, e lui fin da subito ha cominciato a impegnarsi per porre fine alla violenza e al bagno di sangue e per costruire la pace. È una persona fantastica. Lui e tutta la sua famiglia, così come la famiglia di Vivian Silver, che era anche un’amica, una donna incredibile. Si prodigava affinché i bambini di Gaza fossero curati negli ospedali israeliani, li accompagnava e quando stavano meglio li riportava a Gaza. Aveva fondato “Women Wage Peace”, aveva lavorato con i beduini… All’inizio pensavamo fosse tra i rapiti. Io ero sicura che fosse un ostaggio, e che una volta tornata sarebbe stata una delle prime a riprendere un discorso di pace. Ma poi si è scoperto che era morta tra le fiamme dopo aver cercato di nascondersi all’interno di un armadio a casa sua. Sono cose terribili, non c’è modo di farsene una ragione.
Io condanno qualsivoglia forma di violenza, ma al contempo cerco di capire come sia stato possibile tutto questo. Se penso a un giovane cresciuto a Gaza, che ogni due anni della sua vita ha subìto una guerra, senza rifugi, senza posti dove andare a nascondersi, senza libertà di movimento… Uno come lui non può andarsene in Egitto, né attraversare Israele. In Egitto ci vai se hai tanti soldi.
Insomma, questi ragazzini sono bloccati lì senza alcuna speranza. Che tipo di adulti possono diventare? Di quali atti di barbarie possono rendersi capaci? Cosa sei disposto a fare se raggiungi il culmine della disperazione? E poi però penso ai bambini di quei kibbutz, che si sentivano al sicuro, invincibili. Anche se piovevano razzi, avevano un bunker in cui rifugiarsi, pensavano che se la sarebbero cavata comunque. E poi è arrivato il 7 ottobre…
E che dire dei bambini di Sderot, di Ashkelon, di Ashdod, tutte città nei dintorni di Gaza, loro hanno subìto le piogge di razzi da così tanto tempo? Con quale paura sono stati costretti a vivere? Che tipo di trauma deve subire un ragazzino per fare ancora la pipì a letto a dodici anni? Che adulti diventeranno? Potete immaginare con quali sofferenze abbiamo a che fare. E il fatto è che non c’è una soluzione immediata, come il mondo sembrerebbe aspettarsi. Ora il trauma è troppo grande, c’è troppa paura, troppa rabbia, troppo dolore. Queste cose richiedono tempo. È una situazione molto cupa, molto triste.
Inoltre, nessuna delle due leadership sembra essere d’aiuto…
Questo è un eufemismo. Come Parents Circle non siamo affiliati a nessun partito. Siamo un’organizzazione trasversale e oggi comunque non esiste alcun partito israelo-palestinese, anche se mi piacerebbe che ci fosse. Ma non intendo parlare di questo. Voglio però sottolineare che da quando è scoppiata l’ultima guerra, delle settecento famiglie facenti parte di Parents Circle solo tre hanno lasciato l’associazione. Credo sia un risultato incredibile.
La comunità intorno a voi come vede questo vostro tenace impegno a tenere aperto un dialogo?
È difficile. Lo era anche prima della guerra. Il governo, nella sua grande saggezza, ha deciso di bandirci dalle scuole, e questo già prima del 7 ottobre. Noi lavoravamo con studenti e insegnanti da qualcosa come vent’anni, portando un israeliano e un palestinese nelle classi dei diciassettenni, ragazzini che avevano così l’occasione, per la prima volta nella loro vita, di incontrare un palestinese. Da questi incontri potevano ascoltare la storia di un palestinese, vederlo nella sua umanità, confrontarsi con il suo senso di perdita e conoscere una ­realtà nonviolenta impegnata nella costruzione delle condizioni necessarie a un processo di riconciliazione. In un’atmosfera sicura, potevano anche porre delle domande a un palestinese che si rendeva disponibile a interloquire con loro. Credo fossimo l’unica ong israelo-palestinese ammessa nelle scuole. Itamar Ben Gvir, leader dei coloni, già prima di diventare ministro aveva fatto di tutto per ostacolarci.
Poi, una volta diventato ministro, insieme al ministro dell’educazione, ha fatto in modo di bandirci dalle scuole. Molti presidi ci hanno detto che non avrebbero rispettato l’ingiunzione del ministero e che avrebbero continuato a invitarci perché riconoscono che il nostro progetto è prezioso; è l’unico che presenta ai ragazzini una visione alternativa. Noi abbiamo cominciato a organizzare i nostri incontri di dialogo fuori dalle scuole. Inoltre stiamo facendo i passi necessari per impugnare quel divieto davanti alla Corte suprema. Non è la prima volta che ci appelliamo alla Corte.
Ogni anno celebriamo il “Joint Memorial Day” organizzato dai “Combatants for Peace e dal “Parents Circle-Families Forum”; è una sorta di Giornata della Memoria congiunta in cui commemoriamo i morti di entrambe le parti in questa grande iniziativa che si tiene a Tel Aviv e a cui partecipano anche i palestinesi. Negli ultimi anni il governo, per pressioni di Lieberman, Netanyahu, e ora di Gallant, ha provato a impedircelo. Ogni volta ci siamo rivolti alla Corte suprema e ogni volta abbiamo vinto noi. È stata una bella soddisfazione: è una gioia battere il sistema! Hanno anche provato a fermare il nostro campo estivo, che facciamo da anni e a cui partecipano cinquanta tra ragazzini palestinesi e israeliani tra i 14 e i 18 anni. Perfino questa nostra attività è finita al centro di un dibattito parlamentare… ti sembra possibile!? Alla fine sono state le ambasciate americana e tedesca a intervenire, così proprio all’ultimo momento siamo riusciti a fare il nostro campo estivo. Comunque, da questo punto di vista, c’è poco di nuovo nei nostri rapporti con il governo. Purtroppo, dopo l’8 ottobre, la gente è così arrabbiata che fatica a ragionare con lucidità. E poi c’è quello che ti dicevo all’inizio: pesa il senso di umiliazione subìto dall’esercito che non c’era, che non ha protetto i kibbutz. Questa rimane una ferita aperta.
Dev’essere molto difficile ora provare comprensione e compassione per l’altra parte. Mi ha colpito l’homepage che avete preparato dopo il 7 ottobre, che dice “I nostri cuori sono infranti”…
Se guardo a ciò che sta succedendo ora a Gaza, alle donne e ai bambini, resto sconvolta, oltre a sentirmi in colpa, perché anch’io, nonostante la mia attività, faccio parte della comunità israeliana, tutti noi condividiamo parte della colpa. In questo documentario a cui ho partecipato, “One Day After Peace” che parla anche del Sudafrica, c’è quest’uomo che dice: “Ogni uomo dalla pelle bianca porta una parte di colpa di questa situazione”. È vero. Anche se eri nel movimento anti-apartheid, come me, hai comunque beneficiato della situazione dell’apartheid. Allo stesso modo, il mio essere israeliana mi protegge, in un certo senso. Questa però è la prima volta che l’esercito non è riuscito a proteggerci… è tutto molto complicato. Purtroppo non ci sono sfumature nel modo in cui il mondo prova a leggere la situazione: è bianco o nero; tutti sembrano diventati esperti di Medio Oriente e finiscono con l’importare questo conflitto nel loro paese. È una cosa che fa riflettere, perché se pensiamo a ciò che accade in Sudan, Senegal o in Ucraina… tutto sembra diventato irrilevante. Cosa c’è nel conflitto israelo-palestinese che crea così tanto coinvolgimento in tutto il mondo? Non puoi immaginare cosa succede nei campus... Sono stata da poco a Georgetown, a Washington, un’università che ha fatto da mentore al Parents Circle per tanti anni. Lì abbiamo tenuto una bellissima veglia. Hanno partecipato qualcosa come duecento studenti. A nessuno era permesso portare bandiere o manifesti di alcun tipo. C’erano un rabbino, un prete, un imam, io e un palestinese del nostro gruppo, abbiamo parlato… è stata una bellissima serata, con la musica, tutto molto civile, senza slogan. Ho pensato che i ragazzi che hanno partecipato alla veglia sono un piccolo esempio di come si possa essere parte della soluzione e non del problema. Forse succederà.
In questo periodo stiamo ricevendo migliaia di richieste e stiamo ragionando su come preparare un modulo, un video con questi incontri di dialogo, con domande e risposte; la Georgetown University ci sta aiutando a creare un pacchetto rivolto agli studenti. Il sindacato degli insegnanti di Washington ha dato la propria disponibilità a far girare questi materiali. C’è così tanto da fare...
La tua famiglia allargata ti ha seguito fin dall’inizio in questo percorso, ci sono state discussioni?
Mio figlio non è attivo nel Parents circle. Ha frequentato alcuni dei corsi, capisce bene cosa sto facendo. Tutti i miei tre nipotini hanno partecipato al campo estivo, uno di loro è diventato un facilitatore e fa parte dei giovani ambasciatori dell’organizzazione. Il fatto è che la guerra ha creato un gigantesco punto di domanda nella testa di questi ragazzi. Dopo l’ultimo campo, conclusosi il 21 settembre, la Giornata internazionale della pace, i cinquanta ragazzini che avevano partecipato sono andati tutti assieme nell’edificio Onu di Gerusalemme per firmare un documento sulla nonviolenza e sulla riconciliazione. Ma tre settimane dopo è arrivata la guerra, per cui si sono molto arrabbiati gli uni con gli altri. Voglio dire, sono ragazzini, non puoi pensare che dei quattordicenni… Non ci sono mezze misure nel loro modo di percepire le cose. Ci sono voluti alcuni mesi solo per riportarli al punto di volersi incontrare di nuovo. C’è molto lavoro di “riparazione” da fare ora.
(a cura di Barbara Bertoncin. Traduzione di Stefano Ignone)