Un fratello tutsi e uno hutu
ricordarsi
Una Città n° 314 / 2025 ottobre-novembre
Intervista a Yolande Mukagasana
Realizzata da Bettina Foa
UN FRATELLO TUTSI E UNO HUTU
Tra l’aprile e il luglio del 1994 in Rwanda vennero uccisi circa un milione tra tutsi e hutu moderati. Un genocidio a lungo preparato e fondato su una classificazione “inventata” dai colonizzatori europei. La tragedia della perdita della propria famiglia, ma presto il desiderio, quasi la necessità, di fare qualcosa per il futuro, perché non accada mai più. Un paese irriconoscibile che oggi fa parlare di “eccezione rwandese”. Intervista a Yolande Mukagasana.
Yolande Mukagasana, rwandese, è una sopravvissuta del genocidio contro i tutsi del 1994, in cui ha perso tutta la famiglia, tra cui i tre figli e il marito. All’epoca faceva l’infermiera in un ambulatorio. Dopo il genocidio ha trascorso vari anni a Bruxelles e nel 2012 è tornata a vivere in Rwanda dove ha lavorato nella “Commission nationale de lutte contre le génocide”. Fin dalla fine del genocidio, Yolande si è impegnata nella lotta per la verità e la giustizia. Il suo libro del 1997 (tradotto nel 1998 in Italia), La morte non mi ha voluta, costituisce la prima testimonianza diretta sul genocidio. Nel 2008, è uscito in Italia Le ferite del silenzio, con interviste a sopravvissuti e a genocidari. Attualmente Yolande, attraverso la sua fondazione, continua a impegnarsi per la giustizia, la riconciliazione e la memoria, con particolare attenzione all’istruzione delle giovani generazioni. Nel 1998 è stata insignita del Premio Alexander Langer insieme alla sua salvatrice Jacqueline Mukansonera.
Tu sei una sopravvissuta del genocidio contro i tutsi. Come hai sempre sostenuto, si è trattato di un genocidio a lungo preparato, fin da prima dell’indipendenza del Rwanda. Puoi parlarcene?
Si, sono sopravvissuta al genocidio che in cento giorni, da aprile a luglio del 1994, ha fatto circa un milione di morti tra i tutsi e tra coloro che si sono opposti al programma genocidiario. In quei mesi tutta la mia famiglia, tra cui i miei tre figli e mio marito, sono stati uccisi da persone che io avevo curato nel mio ambulatorio. Gli assassini erano dei vicini di casa, delle persone che reputavo amiche, con cui andavo d’accordo e che probabilmente si sono fatte conquistare da questa ideologia genocidiaria. Io mi sono salvata anche grazie all’aiuto di alcune persone hutu coraggiose, e in particolare di Jacqueline Mukansonera, che per undici giorni mi ha tenuto nascosta sotto il lavandino della sua cucina.
Tutti parlano del genocidio del 1994, ma in realtà la storia è iniziata prima. Io ne ho avuto esperienza già quando avevo cinque anni, nel 1959, quando degli uomini, armati di machete e di lance, vennero a cercare mio padre e i miei fratelli per ucciderli. All’epoca si uccidevano gli uomini e i ragazzi, non si uccidevano le donne, che si usavano piuttosto come schiave sessuali.
Gli stupri erano all’ordine del giorno e quindi le mie sorelle più grandi in queste occasioni venivano nascoste. Io ero piccola, avevo paura; ricordo che mi hanno steso per terra e messo uno stivale sul petto, piantato una lancia nella coscia e chiesto: “Dov’è tuo padre?”. Io però non lo sapevo. Piangevo. Mia madre mi ha detto che non avremmo potuto denunciare questa cosa alle autorità perché eravamo tutsi. Io non capivo cosa volesse dire essere tutsi e perché fosse un male. A scuola ci chiamavano scarafaggi, serpenti e anche lì noi bambini non capivamo il perché.
Solo più tardi ho capito cos’è un genocidio e che un genocidio non è mai spontaneo, si pianifica. A ritroso, ripercorrendo la mia vita, riconosco chiaramente le varie tappe di cui parlano gli studiosi dei genocidi. Solo molto tempo dopo sono venuta a conoscenza del fatto che c’era stato un genocidio perpetrato nei confronti degli ebrei. All’epoca noi tutsi eravamo definiti “ebrei d’Africa”. Ci chiamavano anche “comunisti” e non so perché ma questa parola mi faceva molta paura.
Dove e come nasce la classificazione della popolazione in tutsi e hutu?
La divisione etnica tra tutsi e hutu è cominciata con la colonizzazione europea, che è stata inizialmente tedesca. Quando la Germania ha perso la Prima guerra mondiale, siamo diventati un protettorato del Belgio. I tedeschi nel frattempo avevano introdotto questo libretto di identità che si chiamava “Ibuku” (dalla parola tedesca buch). Sono stati poi i belgi a introdurre una vera e propria “carta d’identità etnica”, che si è rivelata uno strumento terribile nelle mani dei genocidiari.
I belgi avevano mandato in Rwanda un’équipe di antropologi per costruire una definizione “scientifica” dei tutsi sulla base dell’altezza, ma anche del numero di vacche possedute. In base a questa definizione, in una stessa famiglia ci poteva essere un fratello tutsi e un altro hutu; dopodiché non era più possibile cambiare l’“etnia” di appartenenza.
Il popolo rwandese ha sempre avuto una sola lingua, una sola cultura; prima della colonizzazione avevamo anche una sola religione, che tra l’altro alcuni continuano a praticare in segreto, nonostante si professino cattolici o musulmani. Prima dell’arrivo dei belgi potevamo essere sia hutu che tutsi, secondo lo status sociale, e quindi potevamo passare da hutu a tutsi o viceversa. Quando scoppiava una guerra, l’esercito era composto da tutsi e da hutu; gli uomini andavano tutti insieme al fronte. I matrimoni misti tra hutu e tutsi erano comuni. Ad esempio, nella mia famiglia mio fratello aveva sposato una donna hutu, ma i suoi figli prendevano l’identità cosiddetta etnica dal padre, quindi erano comunque dei tutsi. Le mie sorelle invece avevano tutte sposato degli hutu, quindi i loro figli erano degli hutu e sono sopravvissuti al genocidio. Una delle mie sorelle è stata uccisa dal marito. In quei giorni il marito di un’altra sorella si disperava perché, non trovandola in casa, non poteva ucciderla. Lei era venuta da me e poi è stata uccisa dalle stesse persone che hanno sterminato la mia famiglia.
Nel periodo del genocidio e anche successivamente vari “esperti” occidentali, tra cui un ministro francese, dicevano che siccome gli hutu e i tutsi non avrebbero più potuto vivere assieme, occorreva disegnare due stati separati su base etnica, un Hutuland e un Tutsiland. A noi questa idea è sempre sembrata un’enorme idiozia. Vi parlavo dei miei nipoti, figli di padre hutu e madre tutsi, che sono degli hutu solo sulla carta… Ecco, cosa avremmo dovuto fare di questi ragazzi, isolarli in una terra di nessuno? Il sangue non ha sempre lo stesso colore?
Dicevi che il genocidio era stato “preparato”. Puoi spiegare?
Già nel 1959, un estremista hutu aveva elaborato i “Dieci comandamenti” degli hutu in cui -senza dichiararlo apertamente- veniva istituzionalizzata l’ideologia contro i tutsi. Due mesi dopo è avvenuto il primo massacro diretto contro i tutsi. Ma fino a questo momento, non possiamo ancora parlare di genocidio, perché si uccidevano solo gli uomini e i ragazzi.
Nel 1962, con l’indipendenza, le elezioni sono state tenute in un clima di massacri; è stata abolita la monarchia ed eletto un governo interamente hutu.
A quel punto molti tutsi hanno abbandonato il paese; altri sono stati uccisi o cacciati. I miei non potevano andarsene e quindi sono rimasti. Da quel momento abbiamo vissuto come dei paria: i tutsi erano emarginati, non avevamo neanche il diritto al passaporto. Alcuni, con la corruzione, riuscivano a ottenere una carta d’identità finta. Inoltre, se eri tutsi, potevi andare a scuola soltanto fino alla fine del primo ciclo; era molto difficile proseguire gli studi. Io sono riuscita a studiare infermieristica grazie alla perseveranza di mio padre. I bambini tutsi venivamo bullizzati e sottoposti a pene corporali, per cui non di rado abbandonavano la scuola. Negli anni successivi ci sono stati altri massacri. Dopo quelli del 1963, gli orfani di tutsi trucidati a volte venivano allevati dagli stessi hutu che avevano ucciso i loro genitori. Nel 1992 hanno addirittura ammazzato a sangue freddo una religiosa italiana, Antonia Locatelli, che aveva lanciato l’allarme e contattato i media per denunciare questi massacri.
Nessuno è stato stato punito per queste uccisioni, anzi, i colpevoli ottenevano maggiori responsabilità politiche.
Per esempio, nel 1973, il gruppo di studenti universitari hutu che era andato a massacrare gli studenti tutsi è finito al potere e lo era ancora nel 1994, quando è stato commesso il genocidio, il “lavoro”, come lo chiamavano loro. Perché la scena ricordava quella della moglie che sveglia il marito dicendo: “Alzati che fai tardi, bisogna andare al lavoro”, cioè a massacrare la gente. Gli assassini infatti agivano alla luce del sole.
Nel 1990 è iniziata la guerra…
Nel 1990 i tutsi rifugiati nei paesi limitrofi, impossibilitati a rientrare in Rwanda si erano rivolti alle Nazioni Unite per perorare la loro causa e richiedere una terra, un luogo dove vivere.
Visto lo scarso ascolto ottenuto, a un certo punto, organizzati nel Fronte patriottico rwandese, Fpr, hanno deciso di rientrare nel paese: forse una guerra avrebbe convinto la comunità internazionale a riconoscere loro quel diritto a una terra...
La reazione degli intellettuali hutu rwandesi fu quella di aggiornare i famosi “Dieci comandamenti” del 1959 diffondendo, purtroppo con successo, quell’ideologia genocidiaria attraverso i giornali estremisti e la famosa e terribile radio “Milles Collines”.
In quel periodo in Rwanda c’erano in effetti molti problemi economici e sociali; il regime era una dittatura, esistevano divisioni tra gli stessi hutu, con quelli del nord che si consideravano superiori a quelli del sud.
Ad ogni modo, la propaganda finiva per attribuire ai tutsi la responsabilità di tutti i problemi del Paese. Proprio per evitare di mettere in pratica l’accordo di Arusha del 1993, che prevedeva la condivisione del potere con i rifugiati, il Presidente iniziò a preparare il genocidio, armando la popolazione con migliaia di machete. Ogni strumento era buono per uccidere: armi da fuoco, asce, martelli, ma anche semplici coltelli da cucina. Gettavano persino le persone nei fiumi dicendo loro di tornare da dove erano venuti, cioè in Etiopia! Erano anche state distribuite delle liste dove era indicato quanti eravamo, dove abitavamo... per uccidere chi doveva essere ucciso.
Noi ci aspettavamo una protezione dalla comunità internazionale, pensavamo che i caschi blu presenti in Rwanda ci avrebbero protetto. Il fatto è che, dopo l’abbattimento dell’aereo presidenziale avvenuto il 6 aprile 1994, quando iniziarono i massacri, anche degli oppositori (in primo luogo la prima ministra e la sua scorta di dieci caschi blu belgi), le Nazioni Unite se ne andarono.
Dopo il genocidio qual era la situazione?
Dopo la liberazione delle zone rurali e delle città secondarie, la fine del genocidio è stata proclamata all’indomani della durissima battaglia che ha portato alla liberazione dell’ultimo settore della capitale Kigali, proprio quello in cui vivevo io con la mia famiglia, Nyamirambo. In quelle settimane la situazione era terribile: il paese era pieno di cadaveri in putrefazione; ovunque c’erano fosse comuni ancora aperte e piene di mosche; potete immaginare l’odore. Poi non c’erano soldi, perché i genocidiari, scappando, avevano portato via quanto depositato nelle banche; non c’era più cibo. I cani della capitale erano diventati enormi a forza di mangiare i cadaveri e a un certo punto hanno iniziato ad attaccare le persone. Hanno dovuto addirittura mobilitare i militari per abbatterli.
A Kigali non c’era molta gente in giro; io ero come impazzita: camminavo scalza perché non avevo le scarpe; avevo dovuto svestire un cadavere per potere andare in giro.
Il governo e i militari genocidari, dopo la sconfitta, avevano attuato la politica della terra bruciata: avevano demolito i ministeri, svuotato le casse dello stato, bruciato i campi per poi fuggire nell’allora Zaire (attualmente Repubblica democratica del Congo), obbligando con la forza circa tre milioni di persone ad andare con loro e tenendole poi in ostaggio nella zona frontaliera con il Rwanda. Anche se la maggior parte dei profughi rwandesi sono poi rientrati, questa situazione ha avuto ripercussioni molto gravi sull’evoluzione della situazione del Congo, in particolare dell’area orientale.
È interessante ricordare come una forma di riconciliazione sia cominciata proprio a livello dell’esercito. Una cinquantina di militari del vecchio regime si è rifiutata di scappare in Congo e ha chiesto l’aiuto del Fronte patriottico rwandese, che ha quindi organizzato la loro integrazione nel nuovo esercito. Questo ha spinto altri militari a tornare volontariamente.
Tale processo si è realizzato nelle modalità che erano state definite nell’accordo di pace di Arusha, che il vecchio regime, malgrado la firma del precedente presidente Habyarimana, non aveva voluto rispettare, dando invece inizio al genocidio.
Come siete riusciti a ottenere giustizia?
Teniamo presente che la strategia degli assassini era stata quella di coinvolgere direttamente la popolazione nella messa in opera del genocidio, rendendo quindi molti rwandesi dei complici. L’idea dei genocidiari era che se tutti sono responsabili, nessuno lo è, cercando di perpetuare così l’impunità dei decenni precedenti. Questo ha voluto dire che alla fine del genocidio c’erano prigionieri dappertutto, nelle scuole, nelle case comunali, erano circa 120.000.
Nel 1998-99 sono andata a incontrare alcuni di loro nelle prigioni. Ero mossa da una domanda: come potremo vivere di nuovo insieme, come un unico popolo, come fratelli? Ho così scoperto delle storie aberranti. Ricordo in particolare quella di un bambino di dieci anni, Evariste, che aveva ucciso i suoi tre amichetti sotto la supervisione degli adulti. C’erano mamme che avevano ucciso i loro figli perché il padre era tutsi.
Per i sopravvissuti era vitale che fosse fatta giustizia. La comunità internazionale ci diceva che non sarebbe stato possibile punire tutti perché con il sistema giudiziario vigente ci sarebbe voluto più di un secolo per realizzare tutti i processi, per cui la proposta era quella di un grande perdono collettivo.
A noi questo non poteva bastare. Avevamo inoltre bisogno di una politica che non fosse divisiva come prima del genocidio. Abbiamo quindi fatto ricorso alla giustizia tradizionale, che faceva parte della nostra cultura, quella dei “gacaca”, con cui si realizza una giustizia riparatrice, riconciliatrice. All’epoca questo strumento non era mai stato usato per giudicare reati di sangue, che erano sempre stati prerogativa del re. Si tratta di una giustizia partecipativa, che dà ai colpevoli la possibilità di confessare il crimine, di testimoniare, di pentirsi e di chiedere perdono alle vittime sopravvissute, ma anche a tutti i rwandesi. La confessione permette di ridurre la pena di metà.
Credo che questa sia stata una buona strategia, perché i “gacaca” hanno veramente contribuito alla riconciliazione e ci hanno permesso di tornare a vivere insieme, vittime e carnefici. Con le loro confessioni, gli assassini ci hanno aiutato a trovare i corpi dei nostri familiari così da poter elaborare il lutto. Tra l’altro, la maggior parte dei genocidari erano giovani ed era quindi importante che, oltre alla punizione, avessero la possibilità di partecipare alla ricostruzione del paese che avevano contribuito a distruggere.
Ovviamente ci sono ancora dei problemi perché, malgrado gli sforzi compiuti, l’ideologia genocidiaria a volte risulta ancora presente nelle scuole e soprattutto nelle famiglie.Purtroppo anche sul Rwanda, con il tempo, è emersa una sorta di negazionismo, non solo da parte di alcune organizzazioni internazionali, ma anche negli stessi rwandesi nati dopo il genocidio o appartenenti a famiglie che vi hanno preso parte. Ci sono poi molti tutsi ancora traumatizzati che trasmettono questo disagio ai loro figli. C’è ancora molto lavoro da fare, sia a livello psicologico che sociale.
Tu sei molto impegnata. Puoi raccontare?
Nell’ambito della fondazione che ho creato nel 2019, sono impegnata con i giovani che hanno abbandonato le loro famiglie e vivono per strada, drogandosi e a volte prostituendosi. Lavoriamo perché tornino a vivere presso le loro famiglie e ricomincino a frequentare la scuola, perché una buona istruzione è centrale per lo sviluppo del nostro paese. Non è un lavoro facile, ma, dopo quasi dieci anni, mi sembra che ci siano dei risultati positivi e che questi ragazzi ricomincino a sentirsi come gli altri giovani. Malgrado l’iscrizione alla scuola sia gratuita, ci sono dei costi per l’alimentazione, il materiale scolastico e la divisa che noi finanziamo (sono circa trenta euro per bambino all’anno). Con giochi e attività, cerchiamo di far stare insieme i ragazzi al di là delle differenze etniche, valorizzando anche le attitudini dei singoli per la danza, la musica, lo sport. Molti poi utilizzano quello che hanno imparato per trovare piccoli lavoretti o fare progetti più ambiziosi per il futuro.
Voglio aggiungere una cosa. All’inizio, quando ho appreso che avevano massacrato i miei bambini, ho pensato che per me non ci fosse più una ragione per vivere. Presto però mi sono resa conto che come testimone di quello che era successo avevo il dovere di raccontare: per ricordare e per fare giustizia. Questo è diventato per me un bisogno vitale, che mi ha aiutato ad accettare di vivere. Mi sono quindi messa a scrivere sul genocidio e sui suoi protagonisti, a testimoniare in tutte le sedi, ma anche a lavorare concretamente per aiutare i giovani.
Dicevi che il Rwanda è cambiato radicalmente rispetto a com’era prima del genocidio, che le persone che visitano il paese rimangono stupite dall’organizzazione e dalla pulizia.
Sì, effettivamente il nostro paese è molto cambiato e se ne stanno accorgendo anche i rifugiati che in questi ultimi mesi stanno rientrando in Rwanda dal Congo.
Certamente la giustizia tradizionale di cui ho parlato prima ci ha aiutato a ricostruire il nostro tessuto sociale. Ma c’è stata anche una grande mobilitazione per contribuire allo sviluppo del paese, per riorganizzarci, per creare le condizioni per vivere meglio e con più dignità. Il ruolo delle donne, che partecipano attivamente a questo processo, viene oggi molto valorizzato. Anche questi sono aspetti importanti per combattere la divisione e l’etnicismo.
Sono state definite delle regole, che forse in altri paesi non sarebbero state seguite. E invece i rwandesi le hanno accolte e seguite in questo sforzo collettivo di ricostruzione. Alcune di queste regole, apparentemente banali, comportano un miglioramento delle condizioni di vita.
Per esempio, tutti devono mettersi le scarpe (che ha voluto dire renderle accessibili anche ai più poveri); i tetti delle case non possono più essere di paglia, ma devono essere di lamiera, per evitare che entrino l’acqua e gli insetti. C’è stato poi un grande sforzo per fornire alla popolazione l’acqua corrente e l’elettricità.
Un grande passo è stato fatto anche rispetto all’ambiente. È stata ingaggiata una lotta radicale contro la plastica (non si vedono più in giro buste e bottigliette) e sono stati avviati importanti progetti di rimboschimento, con anche investimenti nelle rinnovabili e nelle nuove tecnologie.
C’è una disciplina ferrea sul traffico stradale: regole molto severe contro l’alcol al volante e la droga, obbligo del casco per i motorini e le moto (e con non più di due passeggeri); le macchine si devono fermare ai passaggi pedonali.
Nel nostro paese, generalmente c’è una buona manutenzione delle strade.
L’ultimo sabato del mese ci incontriamo per i lavori comunitari -si chiamano Umuganda- e poi ci si riunisce con l’amministrazione per risolvere i vari problemi posti dalla gente. Anche questi sabati di lavoro collettivo aiutano a creare uno spirito di solidarietà.
In questi ultimi anni sono emerse voci critiche sul Rwanda, in particolare sulla gestione del paese “con metodi forti” del presidente Kagame e sul suo presunto ruolo destabilizzatore a livello della regione dei Grandi laghi.
Io penso che, come dicono anche vari conoscitori, giornalisti e studiosi, della regione dei Grandi laghi, all’estero non sappiano cogliere appieno le caratteristiche della cosiddetta “eccezione rwandese”. E cioè che la costruzione di un’identità rwandese nuova, libera dai pregiudizi dell’epoca coloniale e post-coloniale, non poteva essere il prodotto di un processo democratico realizzato secondo i criteri delle vecchie potenze coloniali. Per noi il presidente Paul Kagame è colui che ha messo fine al genocidio dei tutsi e che sta riuscendo a portare sviluppo in un contesto quasi esente da corruzione e arricchimento personale, ma soprattutto che sta lavorando strenuamente per la riconciliazione e la de-etnicizzazione del paese.
Per quanto riguarda il contesto regionale, c’è una tendenza a vedere il conflitto soprattutto come un problema di sfruttamento delle risorse. È quindi importante ricordare che nell’est del Congo ci sono popolazioni rwandofone e anche molti tutsi, sia a causa di come sono state tracciate le frontiere nel Congresso di Berlino del 1885 (che hanno annesso una parte del Rwanda al Congo), sia per emigrazioni successive e spostamenti di popolazioni durante il periodo coloniale. Le popolazioni rwandofone sono state spesso discriminate nei decenni. La situazione è molto peggiorata dopo il genocidio con l’esodo dei genocidari in Congo, che hanno continuato a attaccare i tutsi e a minacciare il Rwanda. Giudico positivamente che i tutsi congolesi si siano ribellati a questa situazione e che il Rwanda sia solidale con loro. L’analisi di questo tema dovrebbe comunque essere molto più approfondita e meriterebbe un’altra intervista…
(a cura di Bettina Foa)
Tu sei una sopravvissuta del genocidio contro i tutsi. Come hai sempre sostenuto, si è trattato di un genocidio a lungo preparato, fin da prima dell’indipendenza del Rwanda. Puoi parlarcene?
Si, sono sopravvissuta al genocidio che in cento giorni, da aprile a luglio del 1994, ha fatto circa un milione di morti tra i tutsi e tra coloro che si sono opposti al programma genocidiario. In quei mesi tutta la mia famiglia, tra cui i miei tre figli e mio marito, sono stati uccisi da persone che io avevo curato nel mio ambulatorio. Gli assassini erano dei vicini di casa, delle persone che reputavo amiche, con cui andavo d’accordo e che probabilmente si sono fatte conquistare da questa ideologia genocidiaria. Io mi sono salvata anche grazie all’aiuto di alcune persone hutu coraggiose, e in particolare di Jacqueline Mukansonera, che per undici giorni mi ha tenuto nascosta sotto il lavandino della sua cucina.
Tutti parlano del genocidio del 1994, ma in realtà la storia è iniziata prima. Io ne ho avuto esperienza già quando avevo cinque anni, nel 1959, quando degli uomini, armati di machete e di lance, vennero a cercare mio padre e i miei fratelli per ucciderli. All’epoca si uccidevano gli uomini e i ragazzi, non si uccidevano le donne, che si usavano piuttosto come schiave sessuali.
Gli stupri erano all’ordine del giorno e quindi le mie sorelle più grandi in queste occasioni venivano nascoste. Io ero piccola, avevo paura; ricordo che mi hanno steso per terra e messo uno stivale sul petto, piantato una lancia nella coscia e chiesto: “Dov’è tuo padre?”. Io però non lo sapevo. Piangevo. Mia madre mi ha detto che non avremmo potuto denunciare questa cosa alle autorità perché eravamo tutsi. Io non capivo cosa volesse dire essere tutsi e perché fosse un male. A scuola ci chiamavano scarafaggi, serpenti e anche lì noi bambini non capivamo il perché.
Solo più tardi ho capito cos’è un genocidio e che un genocidio non è mai spontaneo, si pianifica. A ritroso, ripercorrendo la mia vita, riconosco chiaramente le varie tappe di cui parlano gli studiosi dei genocidi. Solo molto tempo dopo sono venuta a conoscenza del fatto che c’era stato un genocidio perpetrato nei confronti degli ebrei. All’epoca noi tutsi eravamo definiti “ebrei d’Africa”. Ci chiamavano anche “comunisti” e non so perché ma questa parola mi faceva molta paura.
Dove e come nasce la classificazione della popolazione in tutsi e hutu?
La divisione etnica tra tutsi e hutu è cominciata con la colonizzazione europea, che è stata inizialmente tedesca. Quando la Germania ha perso la Prima guerra mondiale, siamo diventati un protettorato del Belgio. I tedeschi nel frattempo avevano introdotto questo libretto di identità che si chiamava “Ibuku” (dalla parola tedesca buch). Sono stati poi i belgi a introdurre una vera e propria “carta d’identità etnica”, che si è rivelata uno strumento terribile nelle mani dei genocidiari.
I belgi avevano mandato in Rwanda un’équipe di antropologi per costruire una definizione “scientifica” dei tutsi sulla base dell’altezza, ma anche del numero di vacche possedute. In base a questa definizione, in una stessa famiglia ci poteva essere un fratello tutsi e un altro hutu; dopodiché non era più possibile cambiare l’“etnia” di appartenenza.
Il popolo rwandese ha sempre avuto una sola lingua, una sola cultura; prima della colonizzazione avevamo anche una sola religione, che tra l’altro alcuni continuano a praticare in segreto, nonostante si professino cattolici o musulmani. Prima dell’arrivo dei belgi potevamo essere sia hutu che tutsi, secondo lo status sociale, e quindi potevamo passare da hutu a tutsi o viceversa. Quando scoppiava una guerra, l’esercito era composto da tutsi e da hutu; gli uomini andavano tutti insieme al fronte. I matrimoni misti tra hutu e tutsi erano comuni. Ad esempio, nella mia famiglia mio fratello aveva sposato una donna hutu, ma i suoi figli prendevano l’identità cosiddetta etnica dal padre, quindi erano comunque dei tutsi. Le mie sorelle invece avevano tutte sposato degli hutu, quindi i loro figli erano degli hutu e sono sopravvissuti al genocidio. Una delle mie sorelle è stata uccisa dal marito. In quei giorni il marito di un’altra sorella si disperava perché, non trovandola in casa, non poteva ucciderla. Lei era venuta da me e poi è stata uccisa dalle stesse persone che hanno sterminato la mia famiglia.
Nel periodo del genocidio e anche successivamente vari “esperti” occidentali, tra cui un ministro francese, dicevano che siccome gli hutu e i tutsi non avrebbero più potuto vivere assieme, occorreva disegnare due stati separati su base etnica, un Hutuland e un Tutsiland. A noi questa idea è sempre sembrata un’enorme idiozia. Vi parlavo dei miei nipoti, figli di padre hutu e madre tutsi, che sono degli hutu solo sulla carta… Ecco, cosa avremmo dovuto fare di questi ragazzi, isolarli in una terra di nessuno? Il sangue non ha sempre lo stesso colore?
Dicevi che il genocidio era stato “preparato”. Puoi spiegare?
Già nel 1959, un estremista hutu aveva elaborato i “Dieci comandamenti” degli hutu in cui -senza dichiararlo apertamente- veniva istituzionalizzata l’ideologia contro i tutsi. Due mesi dopo è avvenuto il primo massacro diretto contro i tutsi. Ma fino a questo momento, non possiamo ancora parlare di genocidio, perché si uccidevano solo gli uomini e i ragazzi.
Nel 1962, con l’indipendenza, le elezioni sono state tenute in un clima di massacri; è stata abolita la monarchia ed eletto un governo interamente hutu.
A quel punto molti tutsi hanno abbandonato il paese; altri sono stati uccisi o cacciati. I miei non potevano andarsene e quindi sono rimasti. Da quel momento abbiamo vissuto come dei paria: i tutsi erano emarginati, non avevamo neanche il diritto al passaporto. Alcuni, con la corruzione, riuscivano a ottenere una carta d’identità finta. Inoltre, se eri tutsi, potevi andare a scuola soltanto fino alla fine del primo ciclo; era molto difficile proseguire gli studi. Io sono riuscita a studiare infermieristica grazie alla perseveranza di mio padre. I bambini tutsi venivamo bullizzati e sottoposti a pene corporali, per cui non di rado abbandonavano la scuola. Negli anni successivi ci sono stati altri massacri. Dopo quelli del 1963, gli orfani di tutsi trucidati a volte venivano allevati dagli stessi hutu che avevano ucciso i loro genitori. Nel 1992 hanno addirittura ammazzato a sangue freddo una religiosa italiana, Antonia Locatelli, che aveva lanciato l’allarme e contattato i media per denunciare questi massacri.
Nessuno è stato stato punito per queste uccisioni, anzi, i colpevoli ottenevano maggiori responsabilità politiche.
Per esempio, nel 1973, il gruppo di studenti universitari hutu che era andato a massacrare gli studenti tutsi è finito al potere e lo era ancora nel 1994, quando è stato commesso il genocidio, il “lavoro”, come lo chiamavano loro. Perché la scena ricordava quella della moglie che sveglia il marito dicendo: “Alzati che fai tardi, bisogna andare al lavoro”, cioè a massacrare la gente. Gli assassini infatti agivano alla luce del sole.
Nel 1990 è iniziata la guerra…
Nel 1990 i tutsi rifugiati nei paesi limitrofi, impossibilitati a rientrare in Rwanda si erano rivolti alle Nazioni Unite per perorare la loro causa e richiedere una terra, un luogo dove vivere.
Visto lo scarso ascolto ottenuto, a un certo punto, organizzati nel Fronte patriottico rwandese, Fpr, hanno deciso di rientrare nel paese: forse una guerra avrebbe convinto la comunità internazionale a riconoscere loro quel diritto a una terra...
La reazione degli intellettuali hutu rwandesi fu quella di aggiornare i famosi “Dieci comandamenti” del 1959 diffondendo, purtroppo con successo, quell’ideologia genocidiaria attraverso i giornali estremisti e la famosa e terribile radio “Milles Collines”.
In quel periodo in Rwanda c’erano in effetti molti problemi economici e sociali; il regime era una dittatura, esistevano divisioni tra gli stessi hutu, con quelli del nord che si consideravano superiori a quelli del sud.
Ad ogni modo, la propaganda finiva per attribuire ai tutsi la responsabilità di tutti i problemi del Paese. Proprio per evitare di mettere in pratica l’accordo di Arusha del 1993, che prevedeva la condivisione del potere con i rifugiati, il Presidente iniziò a preparare il genocidio, armando la popolazione con migliaia di machete. Ogni strumento era buono per uccidere: armi da fuoco, asce, martelli, ma anche semplici coltelli da cucina. Gettavano persino le persone nei fiumi dicendo loro di tornare da dove erano venuti, cioè in Etiopia! Erano anche state distribuite delle liste dove era indicato quanti eravamo, dove abitavamo... per uccidere chi doveva essere ucciso.
Noi ci aspettavamo una protezione dalla comunità internazionale, pensavamo che i caschi blu presenti in Rwanda ci avrebbero protetto. Il fatto è che, dopo l’abbattimento dell’aereo presidenziale avvenuto il 6 aprile 1994, quando iniziarono i massacri, anche degli oppositori (in primo luogo la prima ministra e la sua scorta di dieci caschi blu belgi), le Nazioni Unite se ne andarono.
Dopo il genocidio qual era la situazione?
Dopo la liberazione delle zone rurali e delle città secondarie, la fine del genocidio è stata proclamata all’indomani della durissima battaglia che ha portato alla liberazione dell’ultimo settore della capitale Kigali, proprio quello in cui vivevo io con la mia famiglia, Nyamirambo. In quelle settimane la situazione era terribile: il paese era pieno di cadaveri in putrefazione; ovunque c’erano fosse comuni ancora aperte e piene di mosche; potete immaginare l’odore. Poi non c’erano soldi, perché i genocidiari, scappando, avevano portato via quanto depositato nelle banche; non c’era più cibo. I cani della capitale erano diventati enormi a forza di mangiare i cadaveri e a un certo punto hanno iniziato ad attaccare le persone. Hanno dovuto addirittura mobilitare i militari per abbatterli.
A Kigali non c’era molta gente in giro; io ero come impazzita: camminavo scalza perché non avevo le scarpe; avevo dovuto svestire un cadavere per potere andare in giro.
Il governo e i militari genocidari, dopo la sconfitta, avevano attuato la politica della terra bruciata: avevano demolito i ministeri, svuotato le casse dello stato, bruciato i campi per poi fuggire nell’allora Zaire (attualmente Repubblica democratica del Congo), obbligando con la forza circa tre milioni di persone ad andare con loro e tenendole poi in ostaggio nella zona frontaliera con il Rwanda. Anche se la maggior parte dei profughi rwandesi sono poi rientrati, questa situazione ha avuto ripercussioni molto gravi sull’evoluzione della situazione del Congo, in particolare dell’area orientale.
È interessante ricordare come una forma di riconciliazione sia cominciata proprio a livello dell’esercito. Una cinquantina di militari del vecchio regime si è rifiutata di scappare in Congo e ha chiesto l’aiuto del Fronte patriottico rwandese, che ha quindi organizzato la loro integrazione nel nuovo esercito. Questo ha spinto altri militari a tornare volontariamente.
Tale processo si è realizzato nelle modalità che erano state definite nell’accordo di pace di Arusha, che il vecchio regime, malgrado la firma del precedente presidente Habyarimana, non aveva voluto rispettare, dando invece inizio al genocidio.
Come siete riusciti a ottenere giustizia?
Teniamo presente che la strategia degli assassini era stata quella di coinvolgere direttamente la popolazione nella messa in opera del genocidio, rendendo quindi molti rwandesi dei complici. L’idea dei genocidiari era che se tutti sono responsabili, nessuno lo è, cercando di perpetuare così l’impunità dei decenni precedenti. Questo ha voluto dire che alla fine del genocidio c’erano prigionieri dappertutto, nelle scuole, nelle case comunali, erano circa 120.000.
Nel 1998-99 sono andata a incontrare alcuni di loro nelle prigioni. Ero mossa da una domanda: come potremo vivere di nuovo insieme, come un unico popolo, come fratelli? Ho così scoperto delle storie aberranti. Ricordo in particolare quella di un bambino di dieci anni, Evariste, che aveva ucciso i suoi tre amichetti sotto la supervisione degli adulti. C’erano mamme che avevano ucciso i loro figli perché il padre era tutsi.
Per i sopravvissuti era vitale che fosse fatta giustizia. La comunità internazionale ci diceva che non sarebbe stato possibile punire tutti perché con il sistema giudiziario vigente ci sarebbe voluto più di un secolo per realizzare tutti i processi, per cui la proposta era quella di un grande perdono collettivo.
A noi questo non poteva bastare. Avevamo inoltre bisogno di una politica che non fosse divisiva come prima del genocidio. Abbiamo quindi fatto ricorso alla giustizia tradizionale, che faceva parte della nostra cultura, quella dei “gacaca”, con cui si realizza una giustizia riparatrice, riconciliatrice. All’epoca questo strumento non era mai stato usato per giudicare reati di sangue, che erano sempre stati prerogativa del re. Si tratta di una giustizia partecipativa, che dà ai colpevoli la possibilità di confessare il crimine, di testimoniare, di pentirsi e di chiedere perdono alle vittime sopravvissute, ma anche a tutti i rwandesi. La confessione permette di ridurre la pena di metà.
Credo che questa sia stata una buona strategia, perché i “gacaca” hanno veramente contribuito alla riconciliazione e ci hanno permesso di tornare a vivere insieme, vittime e carnefici. Con le loro confessioni, gli assassini ci hanno aiutato a trovare i corpi dei nostri familiari così da poter elaborare il lutto. Tra l’altro, la maggior parte dei genocidari erano giovani ed era quindi importante che, oltre alla punizione, avessero la possibilità di partecipare alla ricostruzione del paese che avevano contribuito a distruggere.
Ovviamente ci sono ancora dei problemi perché, malgrado gli sforzi compiuti, l’ideologia genocidiaria a volte risulta ancora presente nelle scuole e soprattutto nelle famiglie.Purtroppo anche sul Rwanda, con il tempo, è emersa una sorta di negazionismo, non solo da parte di alcune organizzazioni internazionali, ma anche negli stessi rwandesi nati dopo il genocidio o appartenenti a famiglie che vi hanno preso parte. Ci sono poi molti tutsi ancora traumatizzati che trasmettono questo disagio ai loro figli. C’è ancora molto lavoro da fare, sia a livello psicologico che sociale.
Tu sei molto impegnata. Puoi raccontare?
Nell’ambito della fondazione che ho creato nel 2019, sono impegnata con i giovani che hanno abbandonato le loro famiglie e vivono per strada, drogandosi e a volte prostituendosi. Lavoriamo perché tornino a vivere presso le loro famiglie e ricomincino a frequentare la scuola, perché una buona istruzione è centrale per lo sviluppo del nostro paese. Non è un lavoro facile, ma, dopo quasi dieci anni, mi sembra che ci siano dei risultati positivi e che questi ragazzi ricomincino a sentirsi come gli altri giovani. Malgrado l’iscrizione alla scuola sia gratuita, ci sono dei costi per l’alimentazione, il materiale scolastico e la divisa che noi finanziamo (sono circa trenta euro per bambino all’anno). Con giochi e attività, cerchiamo di far stare insieme i ragazzi al di là delle differenze etniche, valorizzando anche le attitudini dei singoli per la danza, la musica, lo sport. Molti poi utilizzano quello che hanno imparato per trovare piccoli lavoretti o fare progetti più ambiziosi per il futuro.
Voglio aggiungere una cosa. All’inizio, quando ho appreso che avevano massacrato i miei bambini, ho pensato che per me non ci fosse più una ragione per vivere. Presto però mi sono resa conto che come testimone di quello che era successo avevo il dovere di raccontare: per ricordare e per fare giustizia. Questo è diventato per me un bisogno vitale, che mi ha aiutato ad accettare di vivere. Mi sono quindi messa a scrivere sul genocidio e sui suoi protagonisti, a testimoniare in tutte le sedi, ma anche a lavorare concretamente per aiutare i giovani.
Dicevi che il Rwanda è cambiato radicalmente rispetto a com’era prima del genocidio, che le persone che visitano il paese rimangono stupite dall’organizzazione e dalla pulizia.
Sì, effettivamente il nostro paese è molto cambiato e se ne stanno accorgendo anche i rifugiati che in questi ultimi mesi stanno rientrando in Rwanda dal Congo.
Certamente la giustizia tradizionale di cui ho parlato prima ci ha aiutato a ricostruire il nostro tessuto sociale. Ma c’è stata anche una grande mobilitazione per contribuire allo sviluppo del paese, per riorganizzarci, per creare le condizioni per vivere meglio e con più dignità. Il ruolo delle donne, che partecipano attivamente a questo processo, viene oggi molto valorizzato. Anche questi sono aspetti importanti per combattere la divisione e l’etnicismo.
Sono state definite delle regole, che forse in altri paesi non sarebbero state seguite. E invece i rwandesi le hanno accolte e seguite in questo sforzo collettivo di ricostruzione. Alcune di queste regole, apparentemente banali, comportano un miglioramento delle condizioni di vita.
Per esempio, tutti devono mettersi le scarpe (che ha voluto dire renderle accessibili anche ai più poveri); i tetti delle case non possono più essere di paglia, ma devono essere di lamiera, per evitare che entrino l’acqua e gli insetti. C’è stato poi un grande sforzo per fornire alla popolazione l’acqua corrente e l’elettricità.
Un grande passo è stato fatto anche rispetto all’ambiente. È stata ingaggiata una lotta radicale contro la plastica (non si vedono più in giro buste e bottigliette) e sono stati avviati importanti progetti di rimboschimento, con anche investimenti nelle rinnovabili e nelle nuove tecnologie.
C’è una disciplina ferrea sul traffico stradale: regole molto severe contro l’alcol al volante e la droga, obbligo del casco per i motorini e le moto (e con non più di due passeggeri); le macchine si devono fermare ai passaggi pedonali.
Nel nostro paese, generalmente c’è una buona manutenzione delle strade.
L’ultimo sabato del mese ci incontriamo per i lavori comunitari -si chiamano Umuganda- e poi ci si riunisce con l’amministrazione per risolvere i vari problemi posti dalla gente. Anche questi sabati di lavoro collettivo aiutano a creare uno spirito di solidarietà.
In questi ultimi anni sono emerse voci critiche sul Rwanda, in particolare sulla gestione del paese “con metodi forti” del presidente Kagame e sul suo presunto ruolo destabilizzatore a livello della regione dei Grandi laghi.
Io penso che, come dicono anche vari conoscitori, giornalisti e studiosi, della regione dei Grandi laghi, all’estero non sappiano cogliere appieno le caratteristiche della cosiddetta “eccezione rwandese”. E cioè che la costruzione di un’identità rwandese nuova, libera dai pregiudizi dell’epoca coloniale e post-coloniale, non poteva essere il prodotto di un processo democratico realizzato secondo i criteri delle vecchie potenze coloniali. Per noi il presidente Paul Kagame è colui che ha messo fine al genocidio dei tutsi e che sta riuscendo a portare sviluppo in un contesto quasi esente da corruzione e arricchimento personale, ma soprattutto che sta lavorando strenuamente per la riconciliazione e la de-etnicizzazione del paese.
Per quanto riguarda il contesto regionale, c’è una tendenza a vedere il conflitto soprattutto come un problema di sfruttamento delle risorse. È quindi importante ricordare che nell’est del Congo ci sono popolazioni rwandofone e anche molti tutsi, sia a causa di come sono state tracciate le frontiere nel Congresso di Berlino del 1885 (che hanno annesso una parte del Rwanda al Congo), sia per emigrazioni successive e spostamenti di popolazioni durante il periodo coloniale. Le popolazioni rwandofone sono state spesso discriminate nei decenni. La situazione è molto peggiorata dopo il genocidio con l’esodo dei genocidari in Congo, che hanno continuato a attaccare i tutsi e a minacciare il Rwanda. Giudico positivamente che i tutsi congolesi si siano ribellati a questa situazione e che il Rwanda sia solidale con loro. L’analisi di questo tema dovrebbe comunque essere molto più approfondita e meriterebbe un’altra intervista…
(a cura di Bettina Foa)
Archivio
LE FERITE DEL SILENZIO
Una Città n° 116 / 2003 Ottobre
Realizzata da Lanfranco Di Genio
Realizzata da Lanfranco Di Genio
Yolande Mukagasana, ruandese, ha ricevuto il Premio Alexander Langer 1998 assieme a Jacqueline Mukansonera. Ha pubblicato La morte non mi ha voluta, ed. La Meridiana 1998, N’aie pas peur de savoir, 1999 e, recentemente, Les Blessures du silence, Actes sud...
Leggi di più
NESSUNO POTRA’ PIU' DIRE A UN BIMBO “TU SEI TUTSI”
Una Città n° 215 / 2014 Settembre
Realizzata da Barbara Bertoncin, Bettina Foa
Realizzata da Barbara Bertoncin, Bettina Foa
Yolande Mukagasana, ruandese, ha perso i tre figli, il marito e il fratello nel genocidio contro i tutsi del 1994. Dopo alcuni anni trascorsi a Bruxelles, impegnata nella lotta per la verità e la giustizia sul genocidio, è torna...
Leggi di più
QUELLE 200.000 RADIOLINE...
Una Città n° 69 / 1998 Giugno-Luglio
Realizzata da Bettina Foa, Graziella Galvani, Peter Kammerer
Realizzata da Bettina Foa, Graziella Galvani, Peter Kammerer
Yolande Mukagasana ruandese ha perso nel genocidio contro i tutsi i tre figli, il marito e il fratello. La mort ne veut pas de moi, edizioni Fixot, è il racconto di come è riuscita a salvarsi. Attualmente Yolande vive a Bruxelles ed è impegnata nella lott...
Leggi di più
QUELLA FATICA, DI NON VEDERE I RISULTATI
Una Città n° 79 / 1999 Luglio-Agosto-Settembre
Yolande Mukagasana, ruandese, ha ricevuto il Premio Alexander Langer 1998 assieme a Jacqueline Mukansonera. Ha pubblicato La morte non mi ha voluta, ed. La Meridiana, e N’aie pas peur de savoir, 1999.Nel corso del viaggio che mi ha portato qui, ho trascor...
Leggi di più
Premio Alexander Langer II. Ruanda
Una Città n° 73 / 1998 dicembre
Permettetemi di ringraziarvi, di ringraziare l’associazione Pro-Europa e il comitato dei garanti che hanno dato il premio a Jacqueline e a me. Vorrei rivolgere un pensiero particolare a Lisa Foa che non è presente perché ammalata.Il gesto che viene dall’I...
Leggi di più

















