Sei arrivato in Italia 8 anni fa. Puoi raccontarci quel viaggio?
Allora avevo 22 anni e sono partito da Durazzo con la prima ondata, quella del marzo 1991. In quella nave c’erano 7000 persone, era talmente piena che uno aveva solo il posto per tenersi in piedi e doveva aspettare che qualcuno si stancasse di star seduto, perché non stava più comodo, per potergli rubare il posto. Questa cosa è durata per 13 ore, da Durazzo a Brindisi; siamo partiti alle 5-6 di mattina e siamo arrivati alle 7 di sera a Brindisi.
Noi, però avevamo alle spalle altre 12 ore perché a Durazzo siamo saliti sulla nave alle 5 di sera e siamo partiti alle 5 della mattina dopo. La nave all’inizio stava attaccata alla banchina poi siccome continuava a entrare gente l’hanno spostata in modo da non permettere a nessuno di salirci.
Quando siamo arrivati a Brindisi, siamo scesi e la prima notte abbiamo dormito all’aperto (io in realtà non ho dormito), nelle panchine del porto. Comunque siamo stati fortunati perché era l’ultima nave partita dalle coste albanesi, così la Regione Puglia ha iniziato a distribuirci presso le strutture scolastiche. Hanno chiuso le scuole ed è stata fatta la prima identificazione: ci hanno dato una specie di libretto come la carta d’identità, un cartoncino col nome e cognome, poi siamo rimasti per una decina di giorni in questa scuola che se non sbaglio si chiamava J. F. Kennedy, a Brindisi città.
All’arrivo quello che ci ha colpito è stato il calore e l’accoglienza: persone che tenevano le case aperte e le docce che funzionavano 24 ore su 24. Alla fine sono arrivati due pullman: uno andava a Bolzano e uno a Torino.
Io ero partito con un mio amico e all’inizio, siccome entrambi abbiamo fatto una scuola tecnica, abbiamo pensato a Torino, essendo una città industriale, e famosa per la Fiat. Col mio amico avevamo fatto le medie insieme, poi io avevo fatto anche l’università, ingegneria, anche se non mi sono laureato perché sono partito prima di fare gli ultimi esami, comunque ho fatto 4 anni di ingegneria elettrotecnica. E così avevamo deciso di andare a Torino, poi dato che la sorella del mio amico qualche mese prima era arrivata qui a Bolzano con la sua famiglia, lui ha suggerito di andare a Bolzano dove almeno avremmo avuto un punto di riferimento.
Devo dire che io personalmente avevo un legame particolare con Torino, non solo per la passione per la Juventus, ma piuttosto perché mio nonno materno, con cui ho vissuto fin da piccolo, aveva studiato a Torino: era venuto qui durante la guerra con le borse dello stato albanese. Lui si chiamava Abdullah Shehri e in Italia oltre agli studi si era fatto anche due anni di galera internato come antifascista (ma non comunista) nell’isola di Ventotene, dove venivano mandati i detenuti politici; mi raccontava di essere stato in cella anche con Sandro Pertini per un periodo. Poi, ironia della storia, tornato in Albania era stato perseguitato dai comunisti. Comunque adesso a Torino non avevo più nessuno.
Allora abbiamo deciso di partire verso Bolzano. Io a casa dei nonni ascoltavo sempre i telegiornali e i radiogiornali italiani, per cui anche se di Bolzano si parla poco sapevo che esisteva una minoranza tedesca, con un suo partito (sono sempre stato ammalato di politica) e che era un posto turistico, tutto qua.
Così ci hanno messo su un treno speciale che ha fatto Brindisi-Monguelfo senza fermarsi da nessuna parte, se non per dare la precedenza a qualche altro treno. Eravamo in circa 400 persone.
Su ogni vettura del treno c’è anche una cartina d’Italia e io seguivo il viaggio in queste cartine; quando siamo arrivati a Bolzano ci siamo tutti preparati a scendere, perché ci avevano detto che era quella la nostra destinazione. A Bolzano invece c’erano i poliziotti in assetto antisommossa che ci hanno detto: "Su, su, risalite" e il treno è ripartito. In quel momento siccome in Puglia avevo letto su qualche giornale che l’Austria aveva espresso solidarietà all’Italia per gli albanesi arrivati, ho pensato: ci manderanno in Austria. Per me a questo punto andare in Austria, in Germania, in Olanda, o in Italia era la stessa cosa. A un certo punto ti rassegni. E invece alla fine siamo arrivati a Monguelfo -io avevo continuato a seguire il viaggio nella cartina- e ci hanno detto di scendere. Lì però solo una parte è scesa, perché vedendo le montagne, che da noi poi sono simbolo della povertà, e sentendo il freddo, (e ...[continua]
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