Il 30 settembre ’92, alle 9 di mattina, sentimmo sparare e urlare sotto casa nostra. Non si capiva bene cosa urlassero, si sentiva solo: "balja fuori dalle case". (Balja è un modo dispregiativo di chiamare i mussulmani. N.d.r.).
Ci affacciammo: c’era un soldato da solo che sparava in aria. Che fare? I serbi nel condominio avevano affisso un cartello che diceva di aiutare le autorità a mantenere l’ordine e a denunciare i banditi, cosicché il rappresentante del condominio decise di recarsi al posto di polizia denunciando l’accaduto. I poliziotti caddero dalle nuvole e dissero che probabilmente era un soldato ubriaco e che non erano a conoscenza di nessun ordine di espulsione.
Ci tranquillizzammo. Dopo due ore, durante le quali nessuno era uscito di casa, un’anziana signora serba, che viveva in un palazzo vicino, venne a portarci i saluti di un’amica che partiva perché cacciata dall’appartamento. "Ma chi l’ha cacciata via?". "Come chi l’ha cacciata, anche voi dovete andarvene entro oggi, non l’avete saputo?". "No, ci hanno detto che si trattava di un soldato ubriaco." "Non siate sciocche! Stanno buttando fuori dalle loro case tutti i mussulmani, fareste meglio a prepararvi." Siamo corsi fuori e vedemmo un gruppo di persone con pacchi e pacchetti, chi piangeva e chi si disperava e fra questi la mia amica Bilijana che mi venne incontro e mi restituì i soldi che le avevo dato per la spesa della settimana. Tornai a casa e dissi ai miei vicini cosa stava succedendo. Il nostro rappresentante tornò allora alla polizia e lì gli confermarono che in effetti gli ordini sembravano essere quelli: fuori tutti i mussulmani dalle case. Ma nessuno sapeva chi avesse dato quell’ordine. E così anche noi cominciammo a preparare i nostri pacchi. Ma cosa impacchettare? Non è che potessimo trasportare tanta roba. Cosa scegliere? Mia sorella Adela aveva abitato in quell’appartamento per 11 anni, suo marito per 17, la madre di lui si era stabilita lì dopo 50 anni di matrimonio portando con sé tutti i propri ricordi... Dovunque giravo lo sguardo vedevo giocattoli di mia nipote, regali di matrimonio, souvenirs che io stessa avevo portato dall’estero, tutte quelle piccole cose che una famiglia mette insieme in tanti anni di matrimonio. Poi pensai che stava arrivando l’inverno e che mia nipote quando era fuggita nell’altra parte di Sarajevo non aveva trovato abiti della sua misura e così misi in valigia sei tute da ginnastica. E poi alcuni vasetti di salsa, alcuni di marmellata, alcune uova che a Sarajevo nessuno da mesi aveva più visto, -mentre a Grbavitza il mercato era abbastanza fornito perché approvvigionato dai serbi-, infine qualche caspo d’insalata. Dall’altra parte, se lo trovavi, un caspo costava 15 mila lire!
Per la seconda volta fuggivo. Il 21 aprile del ’92 avevo lasciato il mio appartamento a Sarajevo. Durante un bombardamento i vetri erano andati in frantumi e poiché era ancora freddo, i bombardamenti non cessavano e i vetri sarebbero rimasti rotti, mia madre ed io avevamo deciso di trasferirci lì, a casa di mia sorella Adela, nel quartiere di Grbavitza. A quel tempo ancora si poteva passare il ponte e nessuno poteva immaginarsi una divisione della città. Dopo due settimane sì, perché successe. Era il due maggio e Grbavitza rimase sotto il controllo dei serbi. Solo allora la gente cominciò a realizzare che la situazione stava rapidamente deteriorandosi. Eravamo proprio in guerra. Molti giovani mussulmani fuggirono per non essere fatti prigionieri, molti giovani serbi fuggirono per non essere costretti a combattere contro i loro amici del resto della città. Anche mia sorella, insieme a sua figlia e a nostra madre fuggì e riuscì a raggiungere la parte controllata dai bosniaci e andarono a vivere nell’appartamento che avevo lasciato per venire da lei. Ci rimasero poco, di lì a due mesi si sarebbero ritrovate in Italia, dove vivono tuttora. Ma questo allora nessuno poteva immaginarlo.
L’appartamento di mia sorella era in un palazzo di 17 piani, abitato da serbi, croati e mussulmani, che continuarono a vivere insieme. Non ci furono mai problemi, anzi. Organizzammo dei turni di guardia 24 ore su 24, di giorno le donne, di notte gli uomini, per difendere gli appartamenti dai banditi che s’aggiravano nel quartiere, cercando le case vuote da saccheggiare e, a volte, non si fermavano se la casa non era vuota. ...[continua]
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