Da quali materiali è nata la sua ricerca?
Prima di tutto carte aziendali. Mi sono mosso all’interno di quelle che Fourier avrebbe definito le “fucine della menzogna”, ma nelle quali, naturalmente, non c’è soltanto menzogna, c’è costruzione di sapere, c’è il tentativo da parte dei grandi imprenditori di rispondere alle sfide poste dall’ambiente esterno, e cioè dall’opinione pubblica, dai giornalisti, dagli orientamenti dei poteri pubblici. Contemporaneamente ho usato le carte che riguardano i professionisti che si candidano ad aiutare l’impresa a gestire questi rapporti con l’esterno, quelli che poi saranno chiamati public relation men, oppure esperti di comunicazione, anche pubblicitari, oppure figure che hanno legami col mondo politico.
La ricerca prende le mosse da una frase ormai leggendaria, di W. H. Vanderbilt, il magnate delle ferrovie: “The public be damned”, cioè, al diavolo il pubblico!
Intanto questa frase, diventata antonomastica, citata incessantemente, è circondata da un alone di mistero e incertezza. Mai sapremo davvero che espressione abbia usato questo imprenditore; è riferita dai giornali come frutto di un’intervista in una fase, i primi anni ’80 dell’Ottocento, in cui, a differenza di oggi, l’intervista era un fenomeno molto nuovo; la si era cominciata a praticare dal dopo guerra civile in poi. La frase, in ogni caso, riassume bene un orientamento della grande impresa nascente, le ferrovie appunto, nei confronti dell’opinione pubblica; sostanzialmente: “Non disturbare il manovratore”. E’ una frase che rispecchia bene il delirio di onnipotenza che prende sicuramente persone che si trovano a capo di imprese come la Pennsylvania Railroad, che hanno più dipendenti dell’intero sistema postale federale, che poi, in America, allora, voleva dire quasi tutto il pubblico impiego federale, perché i dipendenti pubblici, a quel tempo, erano per il 90% postini. C’è contemporaneamente il fatto che questo potere estremamente ampio è passato e continua a passare attraverso sfide incessanti, attraverso la vertigine delle crisi finanziarie, quindi è fortissimo ma al tempo stesso sottoposto a incertezze molto elevate. E poi c’è probabilmente anche la non abitudine a rapportarsi con sfide estremamente nuove, incerte; ci sono le prime manifestazioni del movimento operaio, i primi giornalisti che cominciano a incalzare, a loro volta in parte mossi da un’istanza di sapere, in parte dalla coscienza che quello dello scandalo è un modo per vendere. Di qui la reazione del grande imprenditore che è appunto: “Al diavolo l’opinione pubblica!”.
Ecco, nel libro cerco di mostrare come si passi progressivamente all’elaborazione di una strategia che cerca di fare i conti con l’opinione pubblica, e quindi con i potenziali consumatori, quelli che poi diventeranno consumatori e cittadini al tempo stesso.
Fino ad allora il grande imprenditore aveva coltivato il segreto professionale come un valore fondamentale?
Sicuramente. Un elemento che io non ho introdotto è quello della privacy, e cioè il senso del segreto come elemento chiave della vita imprenditoriale, ma anche dell’identità maschile di fine ‘800. Gli uomini delle élite stanno passando da una fase in cui è centrale la produzione a una in cui invece sarà centrale il consumo; stanno passando da piccole-medie dimensioni di imprese di città a imprese nazionali di grandi dimensioni; e contemporaneamente devono fronteggiare la crisi della mascolinità legata all’emersione dei movimenti di rivendicazione del suffragio femminile. Di fronte a tutto questo l’uomo si arrocca nella difesa del segreto, e da qui tutte queste società, le famose confraternite maschili degli anni ‘70, ‘80, ‘90 dell’800, fondate su rituali segreti, che adombrano riti di passaggio, di iniziazione; molto spesso in queste società si usano, ad esempio, dei rituali ispirati al mondo nativo, pellerossa, come se si dovessero mimare gesti di eroismo. Questa mascolinità incerta, indecisa, prenderà vigore a cavallo tra ‘800 e ‘900 con una decisa sterzata in chiave marziale-militarista, di cui si vedono già i segnali; con l’incrinatura però prodotta dalla carneficina della guerra civile, che con i suoi 600.000 morti, se da un lato esalta l’aspetto mar ...[continua]
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