Che cosa è la Rete Lilliput e cos’ha fatto da quando è nata, nel 1999?
La sfida di fondo è riuscire a far crescere una nuova idea di economia. Un’economia di giustizia, ispirata all’equità internazionale e alla sostenibilità vera, non quella spacciata dall’attuale sistema di produzione. Questa tensione volevamo farla diventare qualcosa di organizzato, pur sapendo che si costruisce cammin facendo. Allo stesso modo si punta a conseguire dei risultati parziali, più immediati. Il grande sforzo dei numerosi gruppi che compongono la Rete è quello di smetterla di lavorare in modo scollegato e improvvisato, ma di partire dagli obiettivi comuni per vedere se è possibile mettersi d’accordo sulle strategie. Sapendo bene che la diversità è una ricchezza, non un indebolimento. Quindi all’interno della rete c’è chi si occupa dei problemi del lavoro, della sobrietà, dell’ambiente, dei brevetti, degli ogm e così via. Ma dobbiamo essere anche capaci, su alcuni temi molto importanti, di concentrare le forze e ottenere qualche vittoria.
Inizialmente abbiamo fatto un censimento per capire quali sono i gruppi che nella varie città erano impegnati in questi temi, nel mondo dell’associazionismo; volutamente il mondo dei partiti è stato lasciato da parte. Nei confronti dei sindacati non abbiamo mai avuto preclusioni, anzi da parte mia auspicavo un coinvolgimento, ma da quanto ne so, nessuna struttura come tale è entrata nella rete, anche se a livello locale magari con i singoli gruppi opera anche il sindacato.
Si è tentato di divulgare questo nuovo spirito: aggregare associazioni che nello stesso territorio si muovono nella stessa direzione. Il primo passo è stato lanciare la protesta contro la conferenza interministeriale di Seattle, a fine ‘99. Anche se non siamo andati nella città americana, abbiamo cercato di far vedere che in Italia c’era gente che non era d’accordo con il Wto. All’epoca la rete era giovanissima, perché è nata nel settembre ‘99. Però quelli che noi chiamiamo i nodi della rete da molti anni gestivano campagne e avevano promosso attività. Il fatto nuovo di Seattle era che si puntava a fare qualcosa di coordinato fra molti gruppi.
Nel 2000 abbiamo lavorato per rafforzare la struttura della rete, ma allo stesso tempo il Tavolo Intercampagne, che è il punto di incontro fra le associazioni che promuovono iniziative e da cui è nata l’idea della stessa rete Lilliput, ha iniziato a ragionare sui servizi che erano necessari a far crescere la rete. L’unico vero punto in comune è un manifesto generale in cui tutti si riconoscono; per il resto ciascun gruppo è autonomo.
Quali sono i soggetti principali della rete? Quali iniziative ha condotto?
Il promotore è il Tavolo Intercampagne, animato soprattutto da Mani Tese, dal Centro Nuovo modello di sviluppo, Globalizzazione dei Popoli, Aifo, Ctm, Associazione delle Botteghe del Mondo, Bilanci di giustizia, Beati i costruttori di pace; tra le associazioni più grosse c’è il Wwf.
Dopo Seattle, abbiamo pensato soprattutto a rinsaldare i nodi della rete, che ora sono circa una cinquantina in giro per l’Italia e a costruire un’organizzazione. A ottobre 2000 abbiamo tenuto la prima assemblea nazionale, alla quale hanno preso parte oltre mille persone. E’ stata un’occasione per guardarci in faccia, ragionare sugli scenari e sulle prospettive. Lì sono nati vari gruppi di lavoro, uno dei quali sull’organizzazione. E’ il tema più spinoso, perché cerchiamo di costruire qualcosa di nuovo, che coniughi efficienza organizzativa e una struttura ridotta al minimo, senza burocrazie e incontri inutili. Insomma, si tratta di collegare gli opposti. Ci stiamo facendo guidare molto più dall’esperienza che dalle teorie. L’idea è quella di contemperare democrazia, partecipazione dal basso, ma anche efficienza.
Poi è iniziato il lungo lavoro di preparazione al G8 di Genova.
La Rete Lilliput è una delle oltre 600 associazioni che fanno parte del Genoa Social Forum. Come è stato il lavoro di preparazione all’appuntamento di Genova?
Noi abbiamo suggerito fin dall’inizio che Genova non fosse un’occasione di visibilità, ma che la parte del leone la facessero i contenuti. Il grande rischio di questi momenti è proprio questo ...[continua]
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