Fin qui, bene. Salvo che Agamben non definisce mai con chiarezza che cosa sia l’etica. Dice (pag. 20) che "il gesto dell’assumere responsabilità è genuinamente giuridico e non etico". A me sembra, invece, che giuridica sia la responsabilità imputata, etica la responsabilità che il soggetto assume su di sé. La distinzione tra etico e giuridico non sta nella responsabilità, ma su quale sia il soggetto che la pone. In altri termini: etica è la responsabilità che il soggetto si assume verso l’altro, giuridica è la responsabilità che il soggetto di diritto imputa all’altro. Quando in un tribunale si sentenzia "in nome del popolo italiano" è il soggetto giuridico "popolo italiano" a imputare all’imputato la responsabilità di un reato, a difendersi dalla lesione del proprio diritto. Mentre etica è la responsabilità che qualcuno si assume in difesa del diritto di qualcun altro. Agamben dice invece che "l’etica è la sfera che non conosce colpa né responsabilità: essa è, come sapeva Spinoza, la dottrina della vita beata" (pag. 22). Dice anche che "nessuna etica può pretendere di lasciar fuori di sé una parte dell’umano, per quanto difficile da guardare" (pag. 58). Sarà per mia insufficienza, ma non trovo in queste frasi alcun chiarimento su che cosa sia l’etica. Ma gli argomenti principali del libro non sono qui. Riguardano piuttosto la validità della testimonianza su Auschwitz, quale sia il baricentro del fenomeno Auschwitz, il rapporto tra vittime e carnefici, il senso di vergogna manifestato dai sopravvissuti. Vediamoli partitamente.
Per quanto riguarda la testimonianza, Agamben si basa in particolare su Primo Levi, "un tipo perfetto di testimone" (pag. 14). Ma già alla pagina successiva (pag. 15) ne forza l’interpretazione. Dice: "sembra che gli interessi soltanto ciò che rende il giudizio impossibile, la "zona grigia", dove le vittime diventano carnefici e i carnefici vittime".
Forzatura è quel soltanto, che è falso. Primo Levi si interessa abbondantemente anche di fatti su cui il giudizio non solo è possibile ma è anche enunciato; ma più grave è quella simmetria: "dove le vittime diventano carnefici e i carnefici vittime". Chiunque conosca I sommersi e i salvati sa che P. Levi affronta, nella "zona grigia", il problema delle vittime ridotte dalla logica del lager a farsi anche carnefici, ma rifiuta dichiaratamente la simmetria per cui i carnefici diventano vittime, o siano equiparabili alle vittime. Scrive Primo Levi (I sommersi e i salvati, pag. 35): "Rimane vero che la maggior parte degli oppressori, durante o (più spesso) dopo le loro azioni, si sono resi conto che quanto facevano o avevano fatto era iniquo, hanno magari provato dubbi o disagio, od anche sono stati puniti; ma queste loro sofferenze non bastano ad arruolarli fra le vittime. Allo stesso modo, non bastano gli errori e i cedimenti dei prigionieri per allinearli con i loro custodi". Eppure Agamben attribuisce a Levi l’idea di una convertibilità dei carnefici in vittime. Io non so a che cosa miri questa deformazione evidente del pensiero di P. Levi. Ma torneremo su questo argomento, perché Agamben è recidivo nel deformare le testimonianze. Sempre che io abbia capito, perché il suo scrivere è astruso, quasi non avesse trovato il tempo di esser chiaro, o non si fosse liberato da quei complessi adolescenziali secondo cui difficile denota sapere, "uno che se ne intende e non è da tutti".
Torniamo alla questione del testimone. A pag. 31, Agamben pone la questione centrale, appoggiandosi ancora su P. Levi là dove dice: "Non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri (...), sono loro, i "musulmani" cioè, nel gergo del campo, quelli che per sfinime ...[continua]
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