Caro Francesco, dal momento che in famiglia va tutto bene, ho deciso di dedicare queste righe ad alcune nostre reazioni ai recenti sviluppi politici. Speriamo risultino per te di qualche interesse. Ad ogni modo tali sviluppi pubblici occupano una parte centrale nella nostra vita. Per la prima volta, dopo quattro anni e mezzo, le notizie dell’ultima settimana sono state incoraggianti. Sembra che la nuova leadership palestinese sia seriamente determinata a porre fine all’Intifada e a fare un po’ d’ordine nel proprio sistema politico e, cosa per noi più importante, i leader israeliani sembrano reagire positivamente a tali sviluppi.
E’ troppo presto per dire se questi cambiamenti dureranno nel breve periodo, certo ancora non abbiamo ragioni per essere ottimisti nel lungo periodo. C’è ancora l’impressione che i leader di entrambe le parti non abbiamo raggiunto il livello di realismo richiesto per poter pienamente comprendere quali sono i limiti di un eventuale compromesso accettabile per la controparte.
Per spiegarmi permettimi di fare qualche passo indietro. Come già sai, noi siamo stati sempre molto critici rispetto alle politiche adottate da Israele negli ultimi 37 anni, per non parlare delle politiche adottate dal governo Likud che ha gestito gli affari di Israele per gran parte di questo periodo. Noi ovviamente ci siamo sempre opposti alle politiche e all’ideologia perseguite dal nostro attuale primo ministro negli ultimi trent’anni. Anche durante i nostri momenti più rosei mai avremmo sognato che un giorno avremmo pregato per il successo di Sharon. Del resto la nostra storia è stata piena di sorprese (non sempre buone) e questo è esattamente quanto ci è accaduto nell’ultimo anno. La decisione presa da Sharon un anno fa, che ora appare in via di realizzazione nell’anno a venire, ovvero lo smantellamento di tutti gli insediamenti della Striscia di Gaza e di quattro colonie nel Nord della Cisgiordania e il ritiro da queste aree delle forze israeliane, è stata presa troppo tardi, in misura limitata e portata avanti per la ragione sbagliata, oltre che essere concretizzata in modo sbagliato (unilaterale).
Nonostante ciò, oggi siamo convinti che, se portato a termine, questo avvierà un processo che inevitabilmente porterà Israele a intraprendere altre azioni di conciliazione e potrebbe ugualmente condurre ai compromessi necessari per porre fine a questo amaro e sanguinoso conflitto.

Con troppo tardi intendo che se fosse stata presa quattro anni fa questa decisione avrebbe potuto salvare la vita di più di mille israeliani e di tremila palestinesi; in misura limitata dal momento che è fuori discussione che i palestinesi rinuncino alla loro lotta se non riavranno almeno la terra occupata da Israele nel 1967.
Per la ragione sbagliata, perché Sharon credeva che “scaricare” Gaza avrebbe permesso a Israele di mantenere l’occupazione sulla maggior parte dei territori che non sono inclusi nel ritiro; in modo sbagliato, rispetto all’unilateralità, dato che noi non siamo mai stati d’accordo con l’idea, sostenuta dalla maggior parte degli israeliani, che sul versante palestinese non ci fosse un partner per arrivare a compromessi ragionevoli.
I palestinesi, per parte loro, continuano a pretendere un completo ritiro di Israele dalla Linea Verde senza rendersi conto che nessun governo israeliano potrà mai espellere i 400.000 ebrei insediatisi negli ultimi 37 anni all’interno di questo confine (Gerusalemme inclusa). Il massimo a cui possono realisticamente aspirare è un ulteriore smantellamento delle colonie fondate nell’entroterra delle aree palestinesi e che quindi impedirebbero la continuità territoriale di un futuro stato palestinese.
La morte di Yasser Arafat e la musica incoraggiante avviata da Abu Mazen potrebbero mutare l’atteggiamento del governo israeliano. Una qualche azione congiunta è già stata avviata.
Potremmo anche sottolineare che Sharon in qualche modo è riuscito ad assicurarsi il riconoscimento da parte degli Usa dell’impossibilità (e quindi dell’inopportunità di una tale richiesta) di Israele di smantellare il cosiddetto “Blocco degli insediamenti”. E tuttavia Bush sembra determinato a seguire la sua “Road Map” che significa anche la nascita di uno stato palestinese su un territorio saldo e contiguo.
Ci sono profondi gap nelle intenzioni e nella percezione delle due parti anche rispetto ad altre questioni vitali, in primo luogo sulla questione dei profughi e di Gerusalemme.
Gli israelian ...[continua]

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