Chi dice che questi afrikaner sono incivili? Lo dicono i negri, quelli che vivono nelle luride baracche attorno a Jhoannesburg, Pretoria, Cape Town e ad ogni altra piccola città. Quelle linde deliziose cittadine uscite dal progetto unico di un unico architetto che ha vinto l’unico concorso per un unico modello urbanistico e costruttivo in una nazione poco unica e nient’affatto unita.
Loro sono gli incivili, i negri: costruiscono al di fuori del piano e non rispettano l’igiene. Chi non lo sa? Puzzano per natura, sono sempre sporchi e non è detto che il nero derivi solo dal colore della pelle.
Ma noi siamo venuti per conoscere gli animali, non gli uomini. E c’è tutto da guadagnare.
Sappiamo che il leopardo è un animale schivo: caccia di notte, si muove solitario fra le fitte vegetazioni, fugge la presenza dell’uomo. In tanti anni d’Africa non l’abbiamo mai visto. Qui ce ne sono tanti, dicono, ma vattelapesca a scovarli in questo immenso territorio.
Alle ore 15, in piena calura pomeridiana, quando gli animali sembrano disertare la savana per trovare ristoro in segreti luoghi d’ombra, eccone uno sotto un’acacia, al bordo della strada. La sua bella testa di gattone in piena salute sbuca dall’erba e ci osserva senza traccia d’emozione. In mezz’ora di attesa, per poterlo vedere in piedi, non si muove di un filo, non sbadiglia, non dà cenno, nonché di spavento o diffidenza, nemmeno di curiosità. Ogni tanto socchiude gli occhi, quasi assaporando il benefico torpore della savana.
Ci stufiamo e decidiamo di andarcene: ma che razza di leopardo è mai questo che se ne sta qui a dormicchiare come un leone qualsiasi?
Alle 5 del pomeriggio stiamo tornando al lodge dopo un’escursione fallimentare con indigestione d’immagini consuete: impala e springbuk a bizzeffe, con le cornette aguzze e le esili nervose zampette sempre pronte a una rapida fuga. Una coppia di sposini in età, sporgendosi dai finestrini della macchina, ci fa cenno di fermarci e, in un concitato linguaggio da sordomuti, ci indica qualcosa in alto su un albero: a metà di un grosso ramo ricurvo penzola un’antilope morta, buttata là come uno straccio. Mai saputo che le antilopi salgano sugli alberi, vive e morte che siano. La signora dal finestrino, con spaventevole mimica, digrigna i denti e muove un ditino in circolo. Che vuol dire? Che quella vista le ha svegliato un feroce appetito circolare? Ma no! Significa solo che un leopardo si aggira intorno e presto tornerà a divorare la preda che ha posto al sicuro sull’albero. Dopo una lunga vana attesa decidiamo di farci un giretto. Al ritorno l’auto della coppia non c’è più ma il leopardo sì. E’ lassù tutto intento a strappare l’involucro coriaceo dell’animale macellato. Lo scricchiolio di carne ed ossa macinate si interrompe quando, avvertendo la nostra presenza, solleva il muso imbrattato di sangue e ci osserva con sospettosa curiosità. Verificata la nostra immobilità, riprende con sereno impegno la sua opera di scuoiatura e masticazione. Fattosi sazio, si netta muso e petto con un vasto tovagliolo di lingua e si accuccia accanto ai resti del pasto, grampinato al tronchetto coi fortissimi artigli.
Cerchiamo giustificazioni alla nostra mancanza di ripugnanza: non è cattivo, uccide per mangiare, favorisce la selezione naturale eliminando gli ungulati più deboli, contiene l’eccessiva espansione dei grandi branchi quando ne uccide i piccoli. Tutte chiacchiere! In realtà quel brandello di carne penzolante ha ben poco a che fare col grazioso animaletto dai dolcissimi occhi disneyani che avremmo voluto invulnerabile. Adesso è solo un articolo di beccheria di cui anche noi abbiamo gustato la bistecca. Che la nostra sia cotta non è un indice di civiltà ma un’esigenza di digestione.
Come disse il poeta omonimo al plurale di questo elegante innocente assassino, quando si convinse che “gli inermi regni della saggia natu ...[continua]
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