[…] Allora incontrai Giaime Pintor. Dalla Commissione di Armistizio di Parigi era stato ritrasferito a Roma per il 25 luglio. Il nome della sua famiglia, di vecchi militari, e il ricordo che aveva lasciato lo zio, gli facilitavano rapporti con generali e capi militari responsabili. Qualche cosa, una specie di servizio d’informazioni, per l’eventualità di un colpo di forza tedesco, il ministero si era deciso a prepararlo una quindicina di giorni prima dell’armistizio, e Giaime se ne era interessato. Era d’altra parte stato attivo con le prime squadre che i partiti stavano organizzando, con i comunisti che avrebbero fatto parte dei Gap, con i giovani socialisti che avevano relazioni con Carbone, con alcuni del Partito d’Azione che preparavano le prime squadre. Ma, soprattutto con i primi.
In questa sua parte di intermediario tra la rivoluzione e le classi detentrici del potere, i militari e i monarchici, parte che continuava un suo gioco ormai svolto da più anni, Giaime portava un gusto un po’ ingenuo per il machiavellismo, un gusto settecentesco o stendhaliano di avventura disinteressata. Era un osservatore di ambienti e di uomini, un curioso di tutte le realtà umane; da quelle degli ambienti di coltura e di ideale, che in fondo erano più i suoi, a quelli dei militari o della gente di salotto, ove spesso pure trovava qualità e forze da impiegare. Nemico delle tesi rumorosamente intransigenti, Giaime Pintor trovava un piacere giovanile a far lavorare per la rivoluzione quelle sue doti di aristocratico gusto naturale. Si illudeva, come tutti i giovani che si danno le grandi arie "ciniche” della sua generazione, di essere un "realista”, e spregiava i "moralisti”; in ­realtà aveva scrupoli interiori di profonda delicatezza, e, pur amante com’era degli agi che una vita crea, non avrebbe commesso un atto di minima usurpazione di un diritto altrui per conservarsene uno proprio. [...]

Così Giaime, Dino e io andammo a vivere assieme. Avevamo trovato alloggio in un palazzo che guardava a una Napoli poco osservata da altri punti, se non forse dalla Nunziatella, sul promontorio che separa Napoli da Posillipo. Dino portava là il suo spirito giocondo e un po’ chimerico, realizzatore di quanto noi fantasticassimo impossibile; Giaime portava la luce di un giudizio umano, e la passione di un amore giovane, nella compostezza di un gentiluomo. Era il primo ufficiale della casa comune, incaricato di vegliare non al solo ordine nostro, ma a quello dei "letterati” che abitavano al piano di sotto, e che riempivano la casa di tumulti e pantomime.
Quando la casa si vuotava dei numerosissimi visitatori, Giaime, Dino e io restavamo a parlare a lungo. Giaime parlava di quelle che erano le sue esperienze, immense per me che ero stato tagliato dal mondo che mi descriveva. Erano, soprattutto, due ambienti definiti: quello dei giovani comunisti romani, la generazione dei Lombardo Radice, dei Natoli, dei Giolitti, degli Alicata; quello dei giovani intellettuali piemontesi, in gran parte amici miei, del partito d’azione. In entrambi questi ambienti si perseguiva un sogno in gran parte analogo, e che non si esprimeva compiutamente nell’ideale ufficiale o nei programmi dei partiti in cui, dopo essere se stessi, quei giovani militavano. L’ideale di una giustizia che non fosse totalitaria, di una società collettivistica che non fosse chiusa, e al di là della quale restasse l’appello eterno dello spirito.
Nella progrediente amicizia con Giaime sentivo, al posto del dubbio, la certezza che non c’eravamo sbagliati, che una Italia libera e nuova viveva nell’anima di questa generazione ultima, sentivo, anche riempirsi di un significato di calda verità una frase che all’estero mi era sempre sembrata vuota e stolta, sulla "funzione dell’esilio”. [...]

L’Italia che Giaime Pintor esprimeva non era però solo lui e quello che egli mi diceva di Roma e di Torino. In gradi, con qualità diverse, era presente in molti dei giovani che avevamo visto nelle sale del palazzo di largo Carità, dov’era il quartier generale di Pavone, dei giovani che salivano le scale del Centro Italiano di Propaganda.
E, quando, con una brusca lettera, le autorità alleate congedarono, dall’oggi al domani, i volontari di Pavone, noi ci trovammo di fronte a un problema che era assai più che d’assistenza. Potevamo lasciar cadere, disperdere, abbassare quegli entusiasmi e quelle energie? Potevamo permettere che, alla spicciolata, quei giovani entusiasti, arrivat ...[continua]

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