Ogni problema sociale, per quanto limitato, presenta ormai una grande complessità. Innumerevoli sono le connessioni fra famiglia, quartiere, scuola e luogo di lavoro; fra paesi e culture di provenienza, spesso lontanissimi, e luoghi di residenza; fra le necessità più generali di una città o di una regione e le esigenze delle piccole comunità. La stessa condizione di esclusione non deriva ormai solo da forme estreme di povertà materiale e di disagio, ma anche da carenze rispetto ai legami familiari e sociali, da difficoltà di integrazione sociale, dalla perdita del lavoro. Ogni cittadino, in questa situazione, si trova sempre più solo, insicuro, e la sua partecipazione alla vita pubblica tende a ridursi allo stanco rituale del voto (e del sondaggio); la cittadinanza rischia di svuotarsi, di inaridirsi; la necessaria protezione dei cittadini con problemi può cronicizzare la minorità e, di fatto, l’emarginazione.
La soluzione di un problema sociale -dai conflitti condominiali in un quartiere multietnico di Torino all’evasione dell’obbligo scolastico a Napoli, dall’autogestione degli "uditori di voci” all’ubicazione di un sito indesiderato ma di pubblica utilità- non può più essere delegata solo allo studio degli specialisti, e alla successiva decisione degli organi rappresentativi. Un approccio pragmatico, interdisciplinare, cooperativo e partecipativo, coinvolgendo chi spontaneamente ha preso a cuore il problema, i volontari che operano sul campo, i cittadini "protagonisti del problema”, gli esperti di discipline diverse, diventa in realtà il modo migliore per affrontare il problema e la sua complessità. Le stesse contraddizioni, gli stessi conflitti che sorgono fra cittadini e fra gruppi di cittadini e amministratori costretti spesso a decisioni impopolari, si affrontano meglio nella franchezza della discussione, che non con decisioni improvvise la cui preparazione è stata tenuta segreta.
Non solo: ma in questo modo si crea socialità laddove rischia di prevalere la solitudine e l’insicurezza e si riavvicina il cittadino al governo e alla politica, in un rapporto fecondo fra partecipazione dei cittadini e organi rappresentativi. Sempre più nelle democrazie avanzate si diffondono esperienze che riscoprono proprio nella pratica della discussione il senso profondo e originario della democrazia.
La stessa lotta all’esclusione sociale, fondata non già sul paternalismo e la compassione, ma su partecipazione, responsabilità e solidarietà, può sedimentare un insieme di relazioni e attività, "un capitale sociale relazionale” che, in un clima di fiducia e reciproca affidabilità, ricrea coesione e diventa fattore anche di produttività. In questo senso riforma del welfare locale ed esercizio pieno della cittadinanza non possono che intrecciarsi strettamente.
Sia che nascano dall’impulso e dalle idee di gruppi di cittadini e trovino poi ascolto e sostegno nelle amministrazioni, o che siano promosse da amministratori e su impulso di queste trovino il coinvolgimento dei cittadini, anche nel nostro paese sono ormai tantissime le buone pratiche che tentano di risolvere un problema sociale o di attuare un progetto per migliorare la vita sociale, culturale o anche politica di un quartiere o di un luogo di lavoro, con la partecipazione diretta dei cittadini. Pari opportunità e diritti di cittadinanza, partecipazione ai processi decisionali, valorizzazione delle capacità, qualità della documentazione, formazione degli operatori, competenza dei cittadini sono alcuni principi su cui le buone pratiche hanno prodotto progetti e sperimentazioni.
Spesso, purtroppo, queste esperienze non si conoscono, non trovano il modo di essere raccontate, i protagonisti non hanno occasione di scambiarsi le informazioni, i pareri e i consigli. Le buone pratiche non riescono, ancora, a farsi adeguatamente sentire.
L’Almanacco delle buone pratiche di cittadinanza vuol essere un’occasione per raccontare esperienze significative e innovative di buone pratiche, al fine di offrire ai tanti operatori, amministratori, militanti impegnati sul fronte della cittadinanza democratica, spunti di discussione e riflessione sulla socialità, sulla democrazia e sulla partecipazione dei cittadini alla vita pubblica.
...dove c’è una predominanza di popolazione anziana, il qualificare l’appartamento con l’introduzione degli ascensori, di nuovi servizi igienici, con l’unificazione del sistema di riscaldamento (parliamo di quartieri che hanno ancora sette sistemi di riscaldamento, dalla stufa a legna fino al riscaldamento individuale con la caldaietta), può essere determinante. Purché ciò non si trasformi in un tormento per la vita della persona anziana sola che in quell’alloggio ci abita. Infatti, se non si costruiscono con lei tutta una serie di accorgimenti per non allontanarla da casa o per organizzarle un’ospitalità temporanea presso i vicini, o anche solo per garantirle la tinteggiatura dei muri a fine lavoro, cioè tutte operazioni di rassicurazione, l’intervento anziché essere un beneficio verrà visto addirittura come uno svantaggio. Mi ricordo che quando ho iniziato ad andare in questi quartieri, una delle signore di Via Arquata, che ha più di ottant’anni, mi disse: "Ho pochi anni ancora da vivere, non potete aspettare che muoia prima di mettermi a soqquadro la casa?”. A volte anche le migliorie rischiano di scombussolare le abitudini delle persone e di far vivere gli interventi come delle violenze.
Da un’intervista a Eleonora Artesio,
ex ass. all’urbanistica Comune di Torino
In passato questi nodi venivano tagliati in modo netto dallo Stato: gli interessi generali tendevano a prevalere su quelli locali in modo incontrovertibile. E lo vediamo dappertutto: elettrodotti che passano su delle case, zampe di viadotti delle autostrade in mezzo a paesini. Però da un po’ di tempo a questa parte, e per fortuna, assistiamo a una rivitalizzazione degli ambiti locali, a una presa di coscienza, a una ripresa di spirito comunitario, chiamiamolo come vogliamo, per cui diventa sempre più difficile fare cose di questo genere. In fondo, questo è un segno di maturità democratica, perché significa che le piccole comunità hanno più strumenti per difendersi e per far valere le loro ragioni. E quasi sempre sono in grado, non dico di bloccare (anche se spesso ci riescono), ma comunque di mettere i bastoni tra le ruote ai progettisti, ai proponenti, procurando ritardi, tirando per le lunghe, creando costi aggiuntivi.
D’altra parte questa tendenza è in atto in tutto il mondo. L’Italia è arrivata in ritardo. In giro per il mondo ci sono molte esperienze di questo genere. In America è stata anche coniata la parola "Nimby” dalle iniziali di "not in my back yard”, "non nel mio cortile”. Ecco, io mi occupo proprio di questo. Nimby è un’espressione malevola, perché dicendo: "non da me”, sottintende: "bensì da qualcun altro”, ma la possiamo certamente riprendere anche nel senso più positivo di una tutela degli interessi locali.
Da un’intervista a Luigi Bobbio
Quindi è necessario un "terzo”, ma quel terzo non è il "terzo risolutore”; gli unici possibili solutori del conflitto sono infatti i due stessi litiganti, se vogliamo arrivare a una vera soluzione. Se il terzo impone delle soluzioni queste dureranno un certo tempo, ma girato l’angolo i due riprenderanno a litigare. Quindi di fronte al litigio ci mettiamo in posizione di terzietà, di equidistanza tra i due litiganti, e proponiamo un accompagnamento alla ricerca della soluzione che loro troveranno; sono loro che devono autoproporsela. Il discorso del terzo è importante anche perché, di nuovo, nella nostra cultura, di fronte a due che litigano, o a un litigio più ampio, tra parti sociali, addirittura di guerra tra popoli, la nostra attitudine naturale non è di assumere una posizione di terzietà, bensì di schieramento. Questa è un’attitudine che può essere anche importante nella dinamica del conflitto, perché può servire a rafforzare la parte più debole. La confusione riguarda il fatto che vorremmo contemporaneamente essere "alleati del più debole” e "risolutori” del conflitto. Invece quando tu ti allei non puoi più essere in alcun modo il gestore; sei diventato parte nel conflitto. Allora, va benissimo allearsi, ma bisogna poi essere consapevoli del ruolo che si è assunto.
Quindi forse il lavoro più grosso riguarda la diffusione della cultura della gestione del conflitto. Aprire uno spazio come questo infatti non ha senso se contemporaneamente non si lavora a creare su questo stesso territorio una cultura della gestione del conflitto così che diventi una capacità diffusa che possa essere assunta da molti altri soggetti.
Da un’intervista a Duccio Scatolero, Torino
La tradizione vuole che il metadone venga usato esclusivamente per disintossicare. Quindi prima ci si disintossica e poi si torna alla vita "normale”. Oggi, in realtà c’è tutta una letteratura che ci dice che il metadone a lungo termine può essere un trattamento utile anche per l’inserimento sociale, perché se lo si usa bene, quindi con le conoscenze tecniche e farmacologiche adeguate, a un certo punto del suo dosaggio non ha più effetti stupefacenti. Insomma, il soggetto può vivere tranquillamente la sua vita, continuando ad assumere questa sostanza, anche per dieci anni o quanto vuole; poi, quando vorrà, se si sentirà pronto, proverà a disintossicarsi.
Ma qui sta il punto perché, per lui, sarà evidentemente più facile eliminare la sostanza quando si sarà creato delle relazioni, avrà trovato un lavoro, delle nuove risorse e quindi sarà più forte rispetto a prima, quando era senza risorse, abituato a vivere attraverso la mediazione delle droghe.
Un discorso analogo si potrebbe fare per le psicoterapie. Se la proposta fosse esclusivamente quella della seduta classica, chiusi in una stanza, ne arriverebbero due o tre su trecento; giustamente oggi molti psicoterapeuti sono disponibili a farsi la chiacchierata nel corridoio, intercettano le persone, se fanno l’incontro anche nel chiuso della stanza non pretendono che ci sia questo rigido rispetto degli orari, sono attenti alla relazione, alla sua continuità e qualità...
Da un’intervista a Stefano Vecchio,
dipartimento Farmacodipendenza, Napoli
...dove la situazione sta migliorando molto è sul dolore post-chirurgico, ma perché ci sono stati anni di battaglia e perché lì è presente una disciplina, l’anestesiologia che ha a che fare, in qualche modo, con questi problemi. Invece in geriatria, nella medicina interna e, cosa grave, nei traumatismi, l’aspetto del dolore viene un po’ trascurato. Malgrado ci sia una legge dello Stato, già approvata da Camera e Senato, che istituisce i comitati ospedale senza dolore in tutti gli ospedali.
Noi nella nostra regione abbiamo già definito per ogni azienda dei comitati che dovrebbero partire cominciando a fare una formazione basata su un principio che io recito così: "Usate un po’ di più di analgesici; serve un po’ più di analgesia piuttosto che tenere i pazienti nel dolore…”. E badate che questo è un problema non solo etico, ma prettamente sanitario. Nei pazienti con dolore, infatti, aumenta il grado di mortalità. Pensiamo ad anziani che non si possono alzare, che respirano male perché hanno dolore. Poi il paziente con dolore costa di più perché spesso è allettato, sta ricoverato più a lungo, richiede più risorse sanitarie. Il paziente senza dolore può essere dimesso prima.
Da un’intervista a William Raffaeli,
primario reparto terapie del dolore ospedale di Rimini