Ma il resto dell’anno i due bambini si recavano nell’Ospizio degli Invalidi di Kouba, dove la madre di Pierre, dopo aver lasciato l’impiego alle poste, era capo-guardarobiera. Kouba era il nome d’una collina a oriente di Algeri, a un capolinea tramviario; qui, invero, la città finiva e cominciava la mite campagna di Sahel, con i suoi dolci colli, le acque relativamente abbondanti, i prati quasi lussureggianti, i campi di terra rossa e invitante, scanditi in distanza da tronchi di alti cipressi o da canneti. Vigneti, alberi da frutto, granturco vi crescevano ubertosi, senza gran fatica. Per chi veniva dalla città e dai suoi quartieri bassi, umidi e caldi, l’aria sembrava tanto più viva, e la si considerava salubre. Per gli algerini, i quali non appena possedevano qualche soldo o una piccola rendita d’estate scappavano da Algeri e se ne andavano in Francia, dove il clima è più temperato, bastava che in una località qualsiasi si respirasse un’aria un po’ più fresca per battezzarla aria di Francia. E così, a Kouba si respirava aria di Francia.
L’Ospizio degli Invalidi, creato poco dopo la guerra per i mutilati in pensione, si trovava a cinque minuti dal capolinea. Era un vecchio convento, vasto, dall’architettura complicata, dai molteplici ingressi sotto ali aggiunte, dalle grosse mura imbiancate a calce, porticati e ampie sale fresche con soffitti a volta. In esse erano stati collocati i refettori e i servizi. In una di queste sale si trovava il guardaroba diretto dalla signora Marlon, la madre di Pierre. Tra l’odore di ferri caldi e di biancheria umida, affiancata da due lavoranti, una araba e l’altra francese, ella si occupava per prima cosa dei bambini, dava loro un pezzo di pane e cioccolato ciascuno e poi, rimboccandosi le maniche sulle belle braccia floride e robuste, diceva: «Mettetevi questo in tasca per le quattro e andate in giardino, che io ho da fare».
I bambini incominciavano con le corse per i porticati e i cortili interni; il più delle volte consumavano la merenda immediatamente per sbarazzarsi del pane, che non sapevano dove mettere, e del cioccolato, che si fondeva tra le dita. S’imbattevano nei mutilati, chi senza un braccio e chi senza una gamba, e chi sistemato su una carrozzella a ruote di bicicletta; non vi erano né sfigurati né ciechi: soltanto mutilati, vestiti con proprietà, spesso decorati. La manica della camicia o della giacca, o la gamba del pantalone, era ripiegata con cura e fermata attorno al moncherino invisibile con una spilla di sicurezza: non era orribile. Ce n’erano molti, e i bambini, passata la sorpresa del primo giorno, li consideravano alla stessa stregua di tutto ciò che scoprivano di nuovo e che subito incorporavano nell’ordine naturale delle cose. La signora Marlon aveva spiegato loro che quegli uomini avevano perduto un braccio o una gamba in guerra, e la guerra faceva parte integrante del loro universo, non sentivano parlar d’altro. La guerra aveva influito su tante cose attorno a loro che non stentavano affatto a capire che ci si potesse perdere un braccio o una gamba, e che anzi la si potesse addirittura definire come un’epoca della vita durante la quale si perdono le gambe e le braccia. Quindi quell’universo di storpi non era affatto triste, per loro: alcuni erano cupi e taciturni, è vero, ma la maggior parte erano giovani, sorridenti, e scherzavano persino sulla propria infermità. Ce n’era uno biondo, con un faccione quadrato, pieno di salute, che si vedeva spesso in giro nel guardaroba: «M’è rimasta una gamba sola -diceva ai due bambini- ma a darvi un calcio nel sedere ci riesco benissimo» e, appoggiandosi con la mano destra sul bastone e con la sinistra sul parapetto della galleria, si drizzava e lanciava il suo unico piede nella loro direzione. I bambini ridevano insieme a lui, poi se la davano a gambe: pareva loro normale d’essere i soli a poter correre o a servirsi delle due braccia. Una volta però che giocando a football Jacq ...[continua]
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