I giovedì, quando non si era puniti, e le domeniche, si dedicava la mattinata alle compere e alle faccende domestiche. Il pomeriggio, Pierre e Jacques potevano uscire assieme. Nella bella stagione c’era la spiaggia delle Sablettes, oppure la piazza d’armi, vasto terreno sterrato, dove c’era un campo di football rozzamente delimitato, con numerose corsie per giocatori di bocce. Vi si poteva giocare a football, il più delle volte con un pallone di stracci e squadre di marmocchi arabi e francesi, che si formavano sul posto.
Ma il resto dell’anno i due bambini si recavano nell’Ospizio degli Invalidi di Kouba, dove la madre di Pierre, dopo aver lasciato l’impiego alle poste, era capo-guardarobiera. Kouba era il nome d’una collina a oriente di Algeri, a un capolinea tramviario; qui, invero, la città finiva e cominciava la mite campagna di Sahel, con i suoi dolci colli, le acque relativamente abbondanti, i prati quasi lussureggianti, i campi di terra rossa e invitante, scanditi in distanza da tronchi di alti cipressi o da canneti. Vigneti, alberi da frutto, granturco vi crescevano ubertosi, senza gran fatica. Per chi veniva dalla città e dai suoi quartieri bassi, umidi e caldi, l’aria sembrava tanto più viva, e la si considerava salubre. Per gli algerini, i quali non appena possedevano qualche soldo o una piccola rendita d’estate scappavano da Algeri e se ne andavano in Francia, dove il clima è più temperato, bastava che in una località qualsiasi si respirasse un’aria un po’ più fresca per battezzarla aria di Francia. E così, a Kouba si respirava aria di Francia.
L’Ospizio degli Invalidi, creato poco dopo la guerra per i mutilati in pensione, si trovava a cinque minuti dal capolinea. Era un vecchio convento, vasto, dall’architettura complicata, dai molteplici ingressi sotto ali aggiunte, dalle grosse mura imbiancate a calce, porticati e ampie sale fresche con soffitti a volta. In esse erano stati collocati i refettori e i servizi. In una di queste sale si trovava il guardaroba diretto dalla signora Marlon, la madre di Pierre. Tra l’odore di ferri caldi e di biancheria umida, affiancata da due lavoranti, una araba e l’altra francese, ella si occupava per prima cosa dei bambini, dava loro un pezzo di pane e cioccolato ciascuno e poi, rimboccandosi le maniche sulle belle braccia floride e robuste, diceva: «Mettetevi questo in tasca per le quattro e andate in giardino, che io ho da fare».
I bambini incominciavano con le corse per i porticati e i cortili interni; il più delle volte consumavano la merenda immediatamente per sbarazzarsi del pane, che non sapevano dove mettere, e del cioccolato, che si fondeva tra le dita. S’imbattevano nei mutilati, chi senza un braccio e chi senza una gamba, e chi sistemato su una carrozzella a ruote di bicicletta; non vi erano né sfigurati né ciechi: soltanto mutilati, vestiti con proprietà, spesso decorati. La manica della camicia o della giacca, o la gamba del pantalone, era ripiegata con cura e fermata attorno al moncherino invisibile con una spilla di sicurezza: non era orribile. Ce n’erano molti, e i bambini, passata la sorpresa del primo giorno, li consideravano alla stessa stregua di tutto ciò che scoprivano di nuovo e che subito incorporavano nell’ordine naturale delle cose. La signora Marlon aveva spiegato loro che quegli uomini avevano perduto un braccio o una gamba in guerra, e la guerra faceva parte integrante del loro universo, non sentivano parlar d’altro. La guerra aveva influito su tante cose attorno a loro che non stentavano affatto a capire che ci si potesse perdere un braccio o una gamba, e che anzi la si potesse addirittura definire come un’epoca della vita durante la quale si perdono le gambe e le braccia. Quindi quell’universo di storpi non era affatto triste, per loro: alcuni erano cupi e taciturni, è vero, ma la maggior parte erano giovani, sorridenti, e scherzavano persino sulla propria infermità. Ce n’era uno biondo, con un faccione quadrato, pieno di salute, che si vedeva spesso in giro nel guardaroba: «M’è rimasta una gamba sola -diceva ai due bambini- ma a darvi un calcio nel sedere ci riesco benissimo» e, appoggiandosi con la mano destra sul bastone e con la sinistra sul parapetto della galleria, si drizzava e lanciava il suo unico piede nella loro direzione. I bambini ridevano insieme a lui, poi se la davano a gambe: pareva loro normale d’essere i soli a poter correre o a servirsi delle due braccia. Una volta però che giocando a football Jacq ...[continua]

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