Paul Ginsborg, già professore a Cambridge, insegna Storia dell’Europa contemporanea all’Università di Firenze. Tra le sue opere, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, 1989 e L’Italia del tempo presente, Einaudi, 1998. Nell’intervista si fa riferimento a una ricerca pubblicata recentemente: Un’Italia minore, Paul Ginsborg, Francesco Ramella, a cura di, Giunti, Firenze 1999.

Parlare di familismo in Italia è quasi un luogo comune, almeno da trenta, quarant’anni a questa parte, ma, in verità, la presenza dei legami familiari è ancora così rilevante?
Faccio una premessa metodologica. Per studiare bene il peso del familismo ci vuole una serie di studi antropologici moderni. Forse, solo la ricerca di Paolo Filippucci su Bassano del Grappa negli anni Ottanta, che cito più volte nel libro, rompe con la consolidata tradizione antropologica di guardare all’Italia dal Mezzogiorno più tradizionale piuttosto che dalle città, dal Centro-Nord.
Tutto ciò complica un po’ la risposta che posso dare, ma non c’è dubbio che tutti gli studi e le comparazioni internazionali confermano la forza e la solidità, la prossimità spaziale ed emozionale della famiglia italiana e i grandi legami che intercorrono fra le generazioni. La famiglia italiana è sempre più snella, perché si fanno pochi figli, ma è sempre più lunga, perché la generazione dei nonni resta più di prima a stretto contatto con quella dei nipoti. Pur essendo più piccola come nucleo, la famiglia italiana presenta un grande, alcuni direbbero eccessivo, legame infragenerazionale. Non solo, ma le varie generazioni è come se fossero una sopra l’altra. Di fatto, non ci sono quasi più famiglie estese. Le famiglie attuali sono in maggioranza nucleari, però hanno i nonni che vivono nell’appartamento accanto o al piano di sopra.
Questo fa sì che le diverse generazioni si trovino a distanze ridottissime e si telefonino o vedano spessissimo. Questa prossimità spaziale è testimoniata da tutte le statistiche e io stesso l’ho verificata svolgendo una piccola ricerca su Poggibonsi. Questa prossimità spaziale fa molta impressione a un osservatore esterno, a un inglese come me, per non parlare di un australiano o di un americano.
Chi viene dal mondo anglosassone è abituato ad avere spazi infragenerazionali e intragenerazionali, sia emotivi sia geografici, molto più vasti. Ma questo non vuol dire che i legami siano minori, solo che c’è minore sovrapposizione.
Mi pare essere questa la natura attuale della famiglia italiana, ma torniamo al familismo. In primo luogo, penso che questo termine vada trattato con grande attenzione a livello di definizione.
Per quanto mi riguarda, ho scelto una definizione relazionale, secondo cui si può parlare di familismo quando la famiglia è isolata e chiusa in se stessa, e non si relaziona con l’esterno sia a livello di società civile, sia a livello di Stato. Per questo, ho osato mantenere separate, a livello analitico, le sfere della società civile e dello Stato, perché è vero che spesso le famiglie italiane interagiscono fra loro a livello di network, come una società locale, ma agiscono molto meno come una società civile e hanno rarissimamente un rapporto positivo con lo Stato.
Quindi, il familismo rimane un segno di arretratezza della società italiana...
A mio avviso, se lo storico può offrire qualcosa all’odierno dibattito sull’identità italiana può essere soprattutto a livello diacronico, sottolineando quando e dove il familismo risulta più forte e quando, invece, si attenua. Banfield, per esempio, era dell’opinione che con l’arrivo della Modernità il familismo sarebbe scomparso. Nel suo caso, la chiave di lettura era l’americanizzazione: una buona squadra di calcio o, meglio, di baseball poteva risolvere i problemi, o almeno aiutare a risolverli. Io non sono di questa opinione. Credo, infatti, che il familismo, così come il clientelismo, si reinventi in forme moderne. Che sia, in un certo senso, camaleontico. Per cui mi risulta difficile continuare a leggere la storia, e anche il futuro, come un continuo progresso. Sarei molto cauto a questo proposito. Però ritengo che l’innalzamento del livello d’istruzione e l’aumento della mobilità tra le nuove generazioni portino con sé maggiore apertura verso la società, più fiducia verso gli altri, e non solo verso la ristretta cerchia famigliare e amicale. Tutto questo lo si riscontra, per esempio, nel nuovo associazionismo meridionale analizzato da Trigilia, Ramella, e Diamanti. In ...[continua]

Esegui il login per visualizzare il testo completo.

Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!