Adele Manzi, co-fondatrice del Najdeh, organizzazione non governativa nata nel 1977 che opera nei campi profughi palestinesi, ha lavorato a lungo in Siria e in Libano. Oggi vive a Milano.

Sono nata a Balangero, in provincia di Torino. Mio papà, laureato in ingegneria, subito dopo la prima guerra mondiale, aveva trovato lavoro lì come direttore di una fabbrica di viti. Siamo nati tutti e cinque a Balangero, poi la mamma è morta e in seguito ci siamo trasferiti a Torino e poi a Milano. Le radici comunque sono milanesi, il mio bisnonno, Isidoro Bianchi, un noto avvocato, era di Vimercate, e i nonni paterni avevano una drogheria in via Amedei, di qui forse la mia attitudine al commercio. Mi sono laureata a vent’anni, all’Università Cattolica, durante la guerra -era il 1943- e ho avuto la fortuna di laurearmi con Ezio Franceschini. Forse l’unica cosa che mi è restata dell’università è un certo rigore scientifico. Ancora oggi quando vado a un gruppo e mi danno un testo senza referenza, reagisco male… Dopo la laurea ho insegnato tre anni prima a Magenta poi a Milano; con degli amici avevamo anche fondato una scuola serale alla Manzoni, il preside ci aveva concesso delle aule, insegnavamo a chi non aveva fatto la terza media; ancora non c’erano le 150 ore…
Fino a che non ho lasciato tutto. Tra l’altro mio fratello era stato prigioniero in Germania per ventidue mesi, è stato l’8 settembre che lo hanno portato via, e il suo gemello Nino, che invece era piuttosto vagabondo, avrebbe voluto fare il partigiano poi invece non ce l’ha fatta perché uccidere qualcuno… e poi c’è stato il grande choc della morte di mio cugino, che è uno dei 23 milanesi trucidati a Fossoli, assieme alle altre 44 vittime del massacro. Anche mio padre era morto improvvisamente nel 1942.
Insomma credo che all’origine della mia scelta ci sia stata anche una forte spinta alla fuga. Quando mi hanno detto che c’era la possibilità di fare la governante e che addirittura avrei guadagnato di più che a insegnare sono andata un anno in Svizzera in una simpatica famiglia dove mi occupavo di Françoise, una bimba di 6 anni.
Ero dunque a Losanna quando ricevetti da Padre Stefano Bianchi dei depliant di presentazione delle Ausiliarie Laiche delle Missioni (Alm). Lui era stato il cappellano delle ragazze durante gli anni che avevo passato alla Cattolica e, durante la mia assenza dall’Italia, aveva incontrato a Milano Yvonne Pancelet, la fondatrice di questa organizzazione. Era il 1947, se ricordo bene…
L’Alm era nata in Belgio nel ‘37, era un’esperienza di avanguardia. Quando ci entrai io si era in piena guerra fredda, ‘50 e ‘51 per cui volevano mandare una equipe in America. Ricordo che io non ci volevo andare, piangevo, piangevo. Alla fine sono stata inviata in Medio Oriente, prima in Libano per studiare l’arabo, poi a Damasco per creare un ostello di studentesse universitarie. Negli anni a seguire, anche dopo essere stata trasferita in Libano, ho continuato a frequentare Damasco: oggi le ragazze portano quasi tutte il foulard all’islamica, invece in quegli anni, ‘53-54, mentre ero iscritta come uditrice libera all’università, al corso di letteratura, l’unica ragazza che aveva il velo, un velo grigio, la ricordo come una sorta di suora, con il bel visino ovale incorniciato… ecco, ce n’era una sola su tutte le ragazze del primo anno del corso.
Ho ancora una foto interessante di quei giorni. Appena arrivata avevo trovato un letto nell’ospedale delle suore salesiane. Lì avevano degli stanzoni vuoti, che affittavano a studentesse universitarie. Un giorno le studentesse che avevo conosciuto mi hanno invitato a fare un picnic e c’è questa foto che per me è storica: un gruppo di ragazze e ragazzi, forse più ragazze che ragazzi, e nessuna è velata.
Allora si usavano invece molto i foulard, al massimo con sotto una specie di veletta di tessuto leggerissimo, che le ragazze potevano abbassare sugli occhi girando nei suq. C’era poi una scaltrezza, ma anche un sentimento leggero, nel capire quando era opportuno metterlo.

L’associazione Ausiliarie Laiche nelle Missioni successivamente si era chiamata Fraternità Internazionale (Afi), presto infatti si era aperta una discussione sull’ambiguità del termine "laico” e comunque la stessa espressione "missione” nel mondo arabo non si adopera; noi stessi avevamo sviluppato tutta una spiritualità che non era volta alla conversione, era uno spirito molto bello. Dal punto di vista religioso eravamo integrate n ...[continua]

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