Martina Gerosa, 43 anni, italo-tedesca, architetto urbanista, vive e lavora a Milano.

Sono nata dopo solo sei mesi e tre settimane di gestazione e sono rimasta in un’incubatrice per più di due mesi. All’epoca i medici avevano detto ai miei genitori che avevo un’alta probabilità di non farcela. Per cui alla fine il fatto che fossi "miracolosamente” sopravvissuta e anche apparentemente in piena salute è stato per i miei motivo di grande gioia per molto tempo. Tuttavia già durante i miei primi tre anni di vita, loro avevano notato che c’era qualcosa che non andava, che talvolta non rispondevo ai richiami. La pediatra però li rassicurava ed essendo colei che, ai loro occhi, mi aveva salvato la vita, i miei genitori si fidavano ciecamente. Lei ripeteva che era perché mia madre è tedesca e mio padre italiano: "Non preoccupatevi, la bambina imparerà a parlare, è solo per via del bilinguismo, datele tempo che parlerà”. E invece un bel niente.
Fu solo quando avevo circa tre anni e mezzo che scoprirono che avevo una sordità molto grave. Alla fine si erano decisi a farmi un esame audiometrico. Il mio audiogramma pare sia anche abbastanza bello, perché ha tutta una gamma di frequenze presenti, in particolare quelle gravi. E quindi c’è un residuo auditivo che è quello che io sfruttavo. Infatti volevo sempre stare in braccio ai miei genitori, perché evidentemente attraverso la pelle, la via ossea, percepivo alcuni suoni, come ad esempio "liebe”, che è appunto grave. Le frequenze acute, al contrario, non sono mai state il mio forte, fino a tempi molto recenti, quando ho potuto in parte recuperarle attraverso le ultime innovazioni tecnologiche.
Sono nata proprio negli anni in cui l’audiologia vedeva la luce come disciplina medica. La prima cattedra di audiologia venne istituita a Milano nei primissimi anni Settanta. Una concomitanza fortunata, che ha segnato positivamente il mio percorso perché presto si creò un’equipe di riabilitatori, di logopedisti che iniziavano proprio allora a muovere i primi passi, e che trasmisero alle famiglie alcune indicazioni per insegnare ai loro figli a parlare. Il metodo allora si basava su cartoncini su cui c’era un’immagine e, sotto, il nome della cosa rappresentata. Questo induceva automaticamente un bambino ad apprendere leggendo.
Questa logopedia per me fu veramente un gioco, anche perché i miei genitori realizzarono loro stessi questi cartoncini. Ricordo questa cartella gialla e rossa che avevo scelto io stessa con dentro tutti questi cartoncini, su cui i miei genitori incollavano immagini che trovavano su riviste e sotto in bella calligrafia ci scrivevano la parola. Li conservo tuttora come una delle cose più preziose che ho. Anche perché li facevano di notte: di giorno avevano ben altro da fare! La diagnosi di ipoacusia infatti era arrivata alla vigilia della nascita dei miei due fratelli gemelli!
Ricordo che c’era quest’ora magica in cui mia mamma mi invitava a seguirla nella mia cameretta, chiudevamo la porta alle nostre spalle e cominciavamo a lavorare. E’ così che ho imparato a parlare e a leggere. I libri sono diventati molto presto dei compagni di viaggio.
La notte ricordo che accendevo la lucina sopra il mio letto e tiravo fuori i libri che mettevo di fianco al materasso e cominciavo a leggere, così tutto quello che non mi arrivava bene, attraverso la via acustica (all’epoca obiettivamente facevo fatica a seguire i discorsi dei compagni, tante parole scivolavano via), arrivava attraverso la parola scritta. All’inizio chiaramente erano libri semplici per i bambini, con poche parole, come i famosissimi libri di Attilio e Karen.

I miei genitori scelsero di inserirmi nella scuola di tutti, anche se la famosa legge per l’integrazione doveva ancora essere emanata e a rigore avrei dovuto frequentare le scuole "speciali”. Fin dall’asilo, e poi alla scuola elementare ho avuto la fortuna di trovare insegnanti volenterosi e desiderosi di accogliermi nelle loro classi come gli altri bambini. E’ stata una decisione che ha comportato anche un certo carico di fatica, mia, degli insegnanti, dei miei compagni. E però si è rivelata strategica. Anche grazie a una compagna che fin dagli anni della scuola materna e poi ancora alle elementari è stata qualcosa di più di un’amica del cuore. Io non avevo l’insegnante di sostegno, ma avevo Maria Laura che, nel baccano della classe, mi ripeteva quello che la maestra aveva appena finito di dire, che mi faceva vedere il suo quader ...[continua]

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