Puoi spiegarci cos’è e com’è nato Piano C?
Nel corso degli ultimi quindici anni, in cui ho lavorato soprattutto in grandi aziende, occupandomi di comunicazione e gestione di progetti, ho avvertito un crescente disagio: c’erano delle cose che proprio non mi tornavano, delle dinamiche, dei modi di lavorare, di valutare le persone; mi sembrava che ci fosse della roba un po’ antica, legata all’epoca industriale, quando si doveva timbrare il cartellino. Quando poi, dopo essere stata due anni in Nokia, in Finlandia, sono tornata in Italia a lavorare in una banca, ho avuto proprio uno shock culturale. Alla Nokia, tra l’altro, mi occupavo di progetti sociali in Europa, Medio Oriente e Africa; facevo, forse, il lavoro più bello del mondo, nel senso che spendevo i soldi di Nokia per darli al non profit in questi tre continenti. Sono tornata in Italia perché volevo metter su famiglia, non potevo più viaggiare così tanto. Volendo continuare a lavorare nel sociale, sono così finita in Banca Prossima, una banca, quindi un ente profit, che però dialoga solo col sociale. In Nokia ero un perno, avevo una funzione dirigenziale, arrivata qui mi hanno subito spostato a un livello inferiore e abbassato lo stipendio. Ho pensato: se questo è il trade off per vedere i miei figli, va bene, sempre con questa convinzione però che io non ero affatto da meno del collega che rimaneva un’ora in più in ufficio.
Comunque già da prima avevo questa sensazione che ci fossero dei riti che, secondo me, non hanno più alcun senso e che, al contrario, ingabbiano la creatività, ti portano via del tempo, ti rubano dei pezzi di vita. Le riunioni! La quantità di riunioni inutili e inutilmente lunghe. Poi, più vai verso la sera e più diventano importanti. La mattina non si fa mai niente di importante. Tutte le cose importanti dopo le sette. Poi io ho trovato degli ostacoli pazzeschi al cambiamento. Cioè, ci sono delle logiche nel top management, di conservazione del potere acquisito, che vanno contro ogni forma di innovazione anche positiva. Insomma ho capito che non si riusciva a cambiare da dentro. In particolare, in Italia c’è questa ossessione che, se tu sei impegnato, devi essere in ufficio tutto il tempo, non puoi avere altro che il lavoro. Questa cosa mi stava già stretta prima, quando poi ho avuto dei figli, mi è sembrata totalmente folle.
Intendiamoci, va bene lavorare tanto, purché sia il giusto, quello che serve, che non si tratti insomma di perdere tempo. Nell’universo maschile del lavoro c’è questa idea che il tempo è qualcosa che si può disperdere, mentre, nella prospettiva femminile, si ha l’idea che nel tempo si debbano fare anche altre cose.
Con la seconda gravidanza, mi sono scontrata di nuovo con una serie di stereotipi del tipo: "Adesso che hai il secondo figlio, vedrai che sarai meno intelligente, avrai meno tempo”.
Il bello è che io invece a ogni figlio mi sentivo meglio di prima!
Così, a un certo punto, mi sono messa a pensare: "Adesso voglio fare un’impresa mia perché qui non mi ci trovo più”.
L’idea è nata così. Il co-working l’avevo incontrato proprio lavorando in Banca Prossima; il co-working, infatti, specie a Milano, è nato soprattutto intorno alle imprese sociali. Per esempio, "The Hub” è un’area di co-working situata in via Paolo Sarpi dedicata all’innovazione sociale e all’impresa sociale. Ecco allora l’idea di usare uno spazio fisico per dimostrare che si può lavorare in modo diverso e che questo non inficia la produttività, anzi, e al tempo stesso, aumenta il livello di felicità.
A quel punto, anziché aprire una società di consulenza e mettermi a spiegare questa roba, ho detto: "Apriamo uno spazio dove facciamo succedere questa cosa”.
Piano C è nato così. La peculiarità di questo luogo è immediatamente percepibile, già il fatto di sentire la voce dei bambini, psicologicamente, ti cambia completamente la prospettiva.
Provocatoriamente questo spazio di co-working è aperto alle donne, tutte, e agli uomini solo se accompagnati da bambini. Oggi noi abbiamo una trentina di iscritte e di iscritti, di cui due sono uomini con bambini. Tutti gli altri sono donne con o senza bambini; mediamente abbiamo un bambino ogni cinque co-worker.
Puoi spiegare com’è organizzato P ...[continua]
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