Nel 2011 sei tornata a vivere in Rwanda, nei luoghi in cui c’è stato il genocidio. Com’è maturata questa decisione?
Il fatto è che il mio cuore non aveva mai abbandonato il Rwanda. Una volta all’estero mi sono presto resa conto che io ero partita, ma il mio cuore era rimasto là. Da tempo sentivo il bisogno, il desiderio di ricostituire questo equilibro dentro me stessa. Poi sono sopravvenuti motivi contingenti.
In Belgio sentivo che per molte persone ero considerata come qualcuno che si approfittava della bontà dei belgi, dei servizi sociali. Per me questo era motivo di disagio e anche di una sorta di rivolta interiore. In fondo era vero, io ero estremamente povera. Tra l’altro, la gente pensava che guadagnassi qualcosa dalle cose che facevo, dal mio impegno, e io non potevo certo andare a raccontare a ciascuno: "No, guarda che non ho soldi, sono proprio povera”. Ho iniziato a pensare che non potevo invecchiare così e poi in fondo sapevo che c’era più bisogno di me in Rwanda. E così sono partita.
Che ricordi hai del rientro? Com’è stato l’impatto?
Da un certo punto di vista non è stato difficile perché in qualche modo ero rimasta là tutto il tempo. Voglio dire che tutto il mio impegno era stato sul Rwanda, sugli scampati al genocidio, ne ho intervistati tanti, e poi grazie al Premio Langer avevo cominciato a costruire una casa dove ospitare gli orfani. Pertanto mi sentivo là anche senza esserci. In questo senso è stato davvero come tornare a casa.
Una volta arrivata però, una cosa che mi ha colpito e addolorato moltissimo è che ho avuto l’impressione che i vicini non mi volessero. Mi credevano partita per sempre e ora ero tornata e questo non faceva loro piacere. Pensa che appena sono arrivata si sono offerti di aiutarmi a vendere la terra. Mi cercavano pure dei clienti, così la gente si presentava: "È vero che vendete la vostra casa?”, e io: "Ma no, chi ve l’ha detto?”. La mia casa non era ancora finita, perché venderla? E poi non ne ho un’altra. Se la sono presa anche con gli alberi del mio giardino. Ho ancora in corso un contenzioso con un vicino che voleva tagliassi l’albero sul mio lato dell’area comune. Insomma, non sono stata bene accolta. In qualche modo ero fonte di vergogna per loro.
Questo comunque è un fenomeno diffuso un po’ in tutto il paese. I sopravvissuti del genocidio suscitano emozioni molto forti e i vicini reagiscono talvolta in modo molto aggressivo. Non è così raro che si arrivi a uccidere i sopravvissuti. Ci sono delle zone dove i sopravvissuti sono stati costretti ad andarsene per salvaguardare la loro incolumità.
È successo anche il contrario, cioè che siano stati i sopravvissuti a rivalersi sui loro persecutori?
No, i sopravvissuti non hanno le forze per farlo. Parliamo di persone molto segnate psicologicamente. Come non bastasse i sopravvissuti sono spesso ridotti in povertà. Abbiamo persone che non hanno ancora un alloggio. La maggior parte sono donne e molte sono state contagiate dall’Aids. Gli altri sono perlopiù orfani divenuti adulti. È soprattutto davanti a questi orfani divenuti adulti -alcuni dei quali sono entrati in politica, sono divenuti sindaci- che i vicini provano paura e vergogna, una miscela di sentimenti che spesso si esprime in modo violento. Mi sono resa conto che fra i genocidari qualcuno, se potesse, ucciderebbe ancora. Non tutti, ma alcuni sicuramente.
Purtroppo dopo il genocidio i rwandesi sono divenuti molto aggressivi e questo riguarda sia i tutsi che gli hutu. Spesso dietro l’aggressività c’è proprio un passato di persecutori nella famiglia; altre volte le tensioni vengono da problemi legati alla perdita di proprietà.
Molti assassini che sono stati condannati dai tribunali Gacaca a risarcire i sopravvissuti non lo ...[continua]
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