Giampietro "Nico” Berti è stato docente di Storia contemporanea, di Storia dei partiti politici e di Storia delle ideologie del Novecento presso l’Università di Padova. È autore di vari testi fondamentali sulla storia dell’anarchismo e del pensiero anarchico -fra i quali Il pensiero anarchico dal Settecento al Novecento, Piero Lacaita editore 1998, Francesco Saverio Merlino. Dall’anarchismo socialista al socialismo liberale e Malatesta e il movimento anarchico italiano e internazionale, ambedue editi da Franco Angeli nel 1993 e nel 2003, Contro la storia. Cinquant’anni di anarchismo in Italia (1962-2012), Biblion edizioni 2016,  nonché di elaborazioni riferite a questo stesso filone teorico-politico come Libertà senza rivoluzione, Piero Lacaita editore 2012.

Oltre a essere fra i più importanti storici e analisti del movimento e del pensiero anarchico, nella seconda metà del Novecento tu sei stato anche uno dei protagonisti di questo movimento e di questo pensiero, come pure un critico dall’interno, anche se non sempre molto ascoltato…
Ho più di settant’anni e non posso tacere quello che mi sembra lampante, cioè che l’anarchismo, a cui ho dedicato gran parte della mia vita, è profondamente in crisi. Lo è perché, essendo radicalmente cambiate le condizioni sociali, storiche, culturali, rispetto al mondo in cui l’anarchismo è nato, sono emersi i punti ciechi, le mancanze o gli aspetti di matrice religiosa che ancora permangono nel pensiero anarchico e nei movimenti che a esso si ispirano. Purtroppo, buona parte degli anarchici sembra non cogliere questi problemi, non tanto per un difetto intellettuale, perché non mi sembra di sostenere tesi particolarmente astruse e difficili, quanto per un’insufficienza di tipo morale, nel senso che, almeno così mi sembra, non si vuole proprio vedere i problemi. Molti anarchici, infatti, continuano a fare finta di niente e a proporre tesi, modi di essere, teorie che non hanno più alcuna base reale, che potevano avere senso e possibilità ottanta o novanta anni fa, ma che oggi sono fuori dalla realtà concreta e dai suoi problemi, cosicché, conseguentemente, non si interrogano neppure su quali possano essere le possibili proposte libertarie. Purtroppo, questo sguardo rivolto all’indietro riguarda anche alcune persone con cui ho condiviso anni di militanza, di iniziative, di studio e di discussioni. Certo rimane l’amicizia, ma è anche vero che gli anni passano e che cominciamo a morire. Non c’è molto tempo…
Ma come sei arrivato all’anarchismo?
Ci sono arrivato in modo abbastanza casuale. Siamo nel luglio-agosto del 1960, avevo diciassette anni, si cantava Only you, e a Bassano del Grappa, dove sono nato e abitavo, così come in tutto il Veneto, dominava la Democrazia cristiana, cominciava a esserci un po’ di benessere economico, ma io ero insoddisfatto. Anche per questo la domenica mattina andavo a Vicenza, a delle riunioni di repubblicani. Dopo alcune di queste riunioni, un vecchio repubblicano, un avvocato, in modo molto bonario mi dice: "Questo non è il tuo posto, tu non sei repubblicano, tu sei un anarchico” e comincia a spiegarmi le differenze fra repubblicani e anarchici. Gli dissi che la cosa mi interessava molto e lui mi dette l’indirizzo di un anarchico, Tullio Francescato, che abitava a Bassano. Qualche giorno dopo sono andato a trovare Francescato, che mi dette qualche numero del settimanale anarchico "Umanità nova”, che si pubblicava a Roma. Io li leggo e mi dico: "Sono anarchico!”, così ho continuato a leggere "Umanità nova” e mi sono anche abbonato alla rivista "Volontà”, che aveva un’impostazione più teorica e che Francescato sosteneva attivamente.
Dalla famiglia, quindi, non ti è arrivato niente?
Ero figlio unico, mio padre aveva una trattoria, mia madre era casalinga ed erano socialisti, però sul moderato. Non ho ricevuto un’educazione religiosa, il che, però, non vuole dire che i miei mi abbiano dato un’educazione laica in senso, diciamo così, militante. Certo non mi mandavano in chiesa… A scuola sono andato fino alle medie, ma non ero uno studente particolarmente brillante, non avevo voglia di studiare, pensavo ad altro, tant’è che sono stato bocciato una prima e una seconda volta. Così, a quattordici anni, sono andato a fare il garzone da un odontotecnico, dove sono rimasto fino ai vent’anni. Di quel lavoro non ho imparato niente: non avevo una manualità scarsa, ma disastrosa! Dopo cinque anni, sapevo fare poco più di quando ci ero and ...[continua]

Esegui il login per visualizzare il testo completo.

Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!