Daniele Martini, artigiano quarantenne del nord-est, lavora il legno, ha tre figli, quando può fa anche il volontario, vota per Rifondazione.

Sono partito un po’ alla ventura, senza sapere dove sarei andato a finire, senza aver dietro una cultura del lavoro. Via via che s’imparava ho scoperto che era un mestiere che valeva la pena di praticare fino in fondo. Almeno per come lo facciamo noi: si va in una casa e al cliente si fa tutto su misura, proponendogli anche delle soluzioni personalizzate. Facciamo noi anche i progetti, quindi è davvero una soddisfazione, alla fine, avere il cliente o l’amico che dice: "Bravo, hai fatto qualcosa che non avrei immaginato". Noi abbiamo anche la pretesa di avere una certa sensibilità e di conoscere i nostri clienti, di capire certi loro desideri. Otto su dieci diventano poi quasi amici, gli si dà del tu e anche il lavoro si fa nella cerchia di amici e conoscenti. D’altra parte perché rischiare di far fare una cucina senza vederla quando il mercato offre centinaia di cucine già fatte e pronte, se non per il fatto che tu sei riuscito a conquistare la sua fiducia, non solo come lavoro, ma anche come persona? Certo, quello che conta di più è il lavoro fatto bene, ma anche il fattore umano, la simpatia, la confidenza, il fatto di dire: "Chiamo quello lì perché mi dà il consiglio giusto", per noi è molto importante. Questo non c’è nelle aziende che lavorano per altre aziende, lì l’aspetto umano conta poco. E’ per questo che a me non interessa assolutamente crescere di dimensioni, perché, primo, se hai cinque o dieci operai alla fine devi lavorare quasi solo con la testa mentre un artigiano è colui che lavora con la testa, ma anche con le mani; secondo, perché dopo cambia tutto, ci sono più rischi.
Alla fine, perché crescere ? Noi vogliamo restare un po’ a metà fra l’artista e l’imprenditore, come l’artigiano di una volta.
Detto questo, però, io continuo a sentirmi, come artigiano, un po’ anomalo, non sono di quelli cresciuti da bambini nel lavoro e che quindi moriranno nel lavoro. Continuo a immaginarmi sempre un dopolavoro, però se ora penso che ho ancora 20 anni di lavoro davanti, beh, sono contento. Mio fratello, che lavora con me, ha fatto il tragitto inverso quasi: partito da bambino a lavorare, sta scoprendo adesso che oltre al lavoro c’è qualcos’altro, sogna un dopolavoro; una volta o due all’anno va in Africa da un padre missionario, lavora un mese a far panche da chiesa, poi finanzia progetti per il Terzo Mondo e ora sogna di andare in pensione, c’è vicino ormai, mollare tutto e trasferirsi là. In un certo senso io l’ho iniziato all’impegno di solidarietà presentandogli alcune persone e lui mi ha insegnato che anche nel lavoro bisogna buttarsi fino in fondo.

Dal punto di vista dei problemi concreti, aziendali, noi non siamo tra quelli che si lamentano, parlo un po’ al plurale, perché anche il mio socio la pensa un po’ alla stessa maniera, delle tasse, della minimum tax e via dicendo. Quello che ci opprime è la paura di cadere in fallo, di ritrovarti sul giornale come evasore, perché casomai sono venuti e hanno trovato qualche anomalia, o perché viene l’ispettorato o l’Usl e trova che non siamo in regola. Noi abbiamo cercato di metterci a posto, ma è difficile, c’è sempre la paura che qualcosa non vada. "Oddio adesso cosa succede, non abbiamo fatto la visita medica sulla sala", perché c’è la sala verniciatura che deve fare la visita ogni tre mesi: sono tutte cose a cui l’artigiano non è mai stato abituato, perché aveva la sua bottega sotto casa, i residui li buttava nella spazzatura, ma adesso bisogna portarli via e bisogna pagare per farlo. Bisogna fare le analisi ogni tre mesi, sperare che siano giuste, occorrono le concessioni, tutta una serie di cose... Solo per portare via la spazzatura, abbiamo girato sei mesi, non sapevamo dove portarla perché quella roba lì bisogna portarla là, quell’altra bisogna portarla da un’altra parte, l’altra da un’altra parte ancora. Ci sono delle leggi che proprio non siamo nelle condizioni di applicare fino in fondo. E’ questo che infastidisce me, come tanti altri artigiani, non le troppe tasse.
Perché tante piccole imprese stanno chiudendo, almeno nel nostro settore del legno? Qui a Verona, a sentire i rappresentanti, su dieci imprese che hanno chiuso in un anno, ne hanno aperte due. Perché? Perché l’anziano falegname preferisce andare in pensione, piuttosto che adeguare la bottega alle nuove normative e il giovane ...[continua]

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