Le catastrofi che ogni anno colpiscono le nostre regioni rivelano uno sfasamento fra tempi umani e tempi naturali...
Indubbiamente, i tempi umani, cioè quelli della realizzazione delle imprese, sono più lunghi di quelli naturali. Un terremoto sprigiona forza distruttiva in un attimo; un vulcano esplode o va in eruzione in un attimo; una frana come quella del monte Sarno in pochi minuti è in grado di fare quello che ha fatto. Però, noi oggi abbiamo un vantaggio enorme rispetto ai nostri antenati: conosciamo quasi a perfezione quali sono i rischi cui ogni area della Terra è sottoposta. Questa consapevolezza annulla il gap tra tempi naturali e tempi umani, perché ci permette di conoscere quali difese possiamo mettere in opera. Ovviamente si tratta di difese preventive, non di difese approntate a valle dell’evento, perché lì si contano i morti, si fa il censimento dei danni e si aspetta il prossimo evento. Mettere le difese solo dopo che l’evento si è verificato fa parte della "politica del rattoppo" che in Italia ci fa spendere mediamente 2.500 miliardi l’anno per mettere pezze senza rimuovere le cause delle catastrofi naturali. E le cause si possono rimuovere. Dobbiamo prendere atto che l’Italia è una terra giovane, sismica, vulcanica, dissestata idrogeologicamente, come ci dimostrano le frane dopo un po’ di pioggia. Eppure la nostra terra va risanata con un’adeguata politica di prevenzione perché si vive meglio in un territorio reso sicuro e in un ambiente reso vivibile. Invece abbiamo dovuto aspettare il terremoto in Irpinia e Basilicata del novembre 1980 per avere la mappa del rischio sismico in Italia. Ora sappiamo quali sono le zone sismiche del nostro Paese, di quale intensità sono stati, sono e saranno i terremoti in queste zone.
Di conseguenza, non ci resta che attrezzare queste aree con le difese necessarie, così quando si presenterà il prossimo terremoto le strutture edilizie saranno in grado di rispondere alle sollecitazioni sismiche. Insomma, la previsione dell’evento è la maggiore difesa contro l’evento stesso.
Analogo è il caso delle eruzioni vulcaniche, i cui segni premonitori sono prolungati nel tempo, cosicché le eruzioni si possono prevedere con ancor maggiore facilità dei terremoti. Ma i vulcani non sono tutti uguali. A differenza dell’Etna, le cui eruzioni sono essenzialmente effusive e si manifestano in colate laviche, il Vesuvio è un vulcano esplosivo e le sue eruzioni sono in grado di riversare sul territorio una grande quantità di materiale lavico sotto forma di bombe, cenere, lapilli. Se poi le condizioni meteorologiche sono sfavorevoli, nel senso che magari piove, gran parte di questo materiale si trasforma in fango. E il fango è stata una delle cause del seppellimento di Ercolano, Pompei e Stabia. Ma il Vesuvio viene considerato il vulcano più pericoloso della Terra perché grava su un’area che l’insipienza umana ha reso molto più rischiosa di quanto già non fosse per natura. Se su un’area vulcanica come quella vesuviana vanno ad addensarsi seicentomila abitanti, con le relative costruzioni e attività produttive, evidentemente la possibilità di salvare le persone e i beni mobili diventa molto complicata.
Se pensiamo che il territorio potrebbe essere sconvolto da un’eruzione di tipo esplosivo come quella del 1631 o come quella del 79 d. C., la situazione ci appare in tutta la sua gravità. In seguito a quelle eruzioni, infatti, l’area vesuviana tornò ad essere produttiva e abitabile solo dopo molti anni. E a quei tempi non c’era l’urbanizzazione che c’è oggi, frutto degli ultimi cinquant’anni di crescita demografica. Evidentemente, visto che l’ultima eruzione del Vesuvio è avvenuta nel 1944, si è persa la memoria storica di un rischio così grave.
Quindi, secondo lei, la popolazione dell’area vesuviana non ha più percezione del rischio che corre?
Una delle migliori difese dal rischio è la percezione del rischio stesso. In Sardegna, per esempio, la popolazione sa che il terremoto è un evento pericoloso, ma non ne ha la percezione perché lì di terremoti non ce ne sono. La popolazione dell’area vesuviana, invece, non ha percezione del rischio che corre perché nella sua quasi totalità non ha vissuto l’eruzione del ’44, che colpì disastrosamente solo il comune di San Sebastiano al Vesuvio, provocando un ...[continua]
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