Christof Hartmann è ricercatore presso l’Istituto di Scienze Politiche dell’Università di Heidelberg. La sua tesi di dottorato, Fattori esterni e processi di democratizzazione in Africa uscirà a fine anno in Germania presso la casa editrice Leske & Budrich.

A partire dalla fine degli anni Ottanta l’Africa, dopo un decennio e più di dittature e sistemi a partito unico, ha conosciuto vari tentativi di democratizzazione. Quali sono gli sviluppi, e i problemi, di questi tentativi democratici?
Intanto quando si parla della democrazia, e questo non vale solo per l’Africa, bisogna prima chiedersi se ne parliamo solo sul piano delle istituzioni politiche e degli organi di uno Stato o se ne parliamo anche a livello della società, nel senso della partecipazione di tutti i cittadini, di una società civile democratica, ecc. Sembrerebbe una distinzione che non riguarda l’Africa perché su tutti e due i piani non c’era democrazia. Però teniamo presente che molti Stati africani erano nati con delle costituzioni democratiche, con tutte le separazioni dei poteri del caso, ma che, essendo chiaramente ricalcate su quelle delle ex potenze coloniali, perdevano di significato venendo cambiate fin troppo facilmente. Quindi, da un punto di vista analitico, non politico, ha senso tenere presente entrambi questi livelli di analisi: il livello democratico dal punto di vista delle istituzioni e poi quello della società civile, perché è chiaro che questi paesi possono pure instaurare dei sistemi democratici sul piano formale, ma se poi non ci sono delle persone che ci credono, delle élites che rispettano queste regole, la democrazia non reggerà o avrà ben poco significato.
Con questo non voglio certo dire che la democratizzazione ha senso solo se in partenza tutti sono democratici. Si deve accettare il fatto, ma questo in tutti i paesi, che ci siano delle persone che hanno interessi contrari alla democrazia, che vogliono difendere uno status quo; la democratizzazione è sempre un processo e un sistema democratico perfetto non nasce certo da un momento all’altro. Fatta questa premessa parlerò dell’Africa subsahariana, che conosco meglio.
In quasi tutti i paesi africani, e nel corso di pochi anni, forti movimenti democratici hanno portato, sia pure in forme varie, all’indizione di elezioni libere e al varo di costituzioni liberali. Un processo di democratizzazione così improvviso, in paesi in cui fino agli anni Ottanta non erano individuabili classi sociali o gruppi interessati a sostenere un sistema democratico, ha funzionato molto diversamente nei vari paesi. Intanto c’è da dire che negli anni si creano dei gruppi di potere che approfittano del sistema in vigore e che non sono certo disposti ad abbandonare tutti i privilegi accumulati solo perché cambia il sistema internazionale. Tanti gruppi quindi hanno cercato subito di manipolare queste nuove regole democratiche a loro vantaggio, per mantenersi al potere. Nessuno, però, avrebbe mai immaginato che in vari paesi questi gruppi ci sarebbero riusciti. Ci sono paesi dove dei potentati autoritari e consolidati da anni hanno perso le elezioni e hanno dovuto inchinarsi alla volontà dei loro popoli. In almeno dieci, quindici paesi i candidati dell’opposizione sono poi andati al potere, il che, va detto, non ha garantito affatto che questi paesi funzionassero automaticamente in un modo più democratico.
Il caso dello Zambia, uno dei primi paesi, all’inizio degli anni Novanta, a tenere elezioni libere, è eclatante: un presidente autoritario, ma conosciuto per governare in un modo abbastanza clemente -Kenneth Kaunda- è stato battuto dal candidato dell’opposizione -Chiluba- che da presidente ha iniziato a governare nello stesso modo del predecessore. In casi simili l’euforia per i cambiamenti democratici è finita presto, però questo, a mio avviso, non avvalora affatto l’idea che un sistema democratico non può funzionare nel contesto africano, piuttosto induce un sano realismo sulla velocità dei cambiamenti possibili. Lo vediamo anche nei nostri paesi: una cultura politica non cambia in un giorno. Chi è stato ministro in un governo africano, controllando, per esempio, il funzionamento del commercio estero, o chi, essendo dirigente di una impresa statale, seguendo una logica non economica, ma politica, ha distribuito posti di lavoro al gruppo politico o etnico di cui faceva parte, non può cambiare mentalità da un giorno all’altro. Solo il primo entusiasmo per il fatto che i dittatori ...[continua]

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