Nell’ambito del vostro programma di ricerca avete introdotto il termine “economia di bazar” per descrivere una particolare realtà economica. Come si può definire questa economia di bazar, che cosa introduce di nuovo rispetto all’economia capitalistica o all’economia informale?
Il termine “bazar” introduce una rappresentazione diversa dell’economia, in quanto descrive un commercio che attraversa le frontiere utilizzando le reti dell’immigrazione e le circolazioni migratorie. Si tratta di un’economia che si sviluppa intorno a tre concetti chiave: la piazza commerciale, cioè il luogo di incontro di un certo numero di flussi, di strade commerciali e di prodotti; le reti migratorie e i commerci transfrontalieri. Si parla di bazar e non di commercio informale prima di tutto perché a me il termine “informale” non piace, non per pudori da intellettuale verso questo termine, ma perché, affinché l’“informale” acquisti un senso, bisognerebbe definire il “formale”. In realtà il formale, pur se utilizzato come una categoria sociale ed economica, non è definito: tutti i commercianti della rue Saint Férreol di Marsiglia, come dei migliori negozi delle altre città, evadono sempre un po’ le imposte, si arrangiano nei prodotti, scivolando puntualmente nell’informale. Sembra allora più appropriato parlare di economia di bazar, perché questa segue due regole essenziali, che sono le caratteristiche tradizionali del bazar nel senso orientale del termine, anche se questo non significa che lo pratichino solo gli orientali. La prima regola prevede che all’interno dell’organizzazione del lavoro del bazar multiculturale ci siano delle segmentazioni, delle categorizzazioni etniche o culturali: nel bazar tradizionale c’erano ebrei, musulmani, cristiani; nel bazar di oggi ci sono africani, algerini, tunisini, senegalesi, francesi (i “petits blancs”), ebrei sefarditi, armeni; cioè occorrono una serie di differenze che rendano possibile il commercio. Infatti una delle basi antropologiche dell’economia è l’impossibilità del commercio fra fratelli: non si vende ai propri simili, ai propri cugini o fratelli, la differenza è necessaria affinché il commercio sia possibile. La seconda regola, o caratteristica, di questa economia è l’interazione, cioè tutto ciò che nel commercio o anche nell’industria “moderna” funziona in base all’organizzazione, alle gerarchie, alle transazioni, ai contratti, in ambiti molto ristretti, gerarchizzati e scritti, nel commercio di bazar funziona sull’interazione personale, l’oralità e l’onore.
Le caratteristiche dell’economia di bazar e ciò che ne costituisce la ricchezza sono legati quindi al “capitale sociale”, cioè al potenziale di relazioni sociali, invece che alla tecnologia e alla burocrazia.
Come si articola questa divisione del lavoro culturale e etnica? Ci sono specializzazioni legate a certi gruppi piuttosto che ad altri?
La divisione del lavoro è complessa, in quanto avviene contemporaneamente in modi diversi e stratificati: può dipendere dalla specializzazione in alcuni settori della catena commerciale, dalla circolazione delle merci o dalla specializzazione dei prodotti. Nell’economia di bazar di Marsiglia, ad esempio, tutti i grossisti sono armeni o ebrei sefarditi, forse perché si tratta di persone che avevano del capitale, ma anche perché la loro posizione nella società francese è di minoranza intermediaria, cioè sono identificati come gruppo culturale ed etnico e nello stesso tempo sono sufficientemente integrati nella società francese per essere una minoranza che fa da tramite fra mondi diversi: la società francese e il mondo degli stranieri. Mentre tutti i grossisti sono ebrei sefarditi o armeni, quasi per una sorta di divisione statutar ...[continua]
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