Nota del 25 ottobre
1.400 uccisi in Israele da Hamas con circa 200 ostaggi; 5.000 uccisi e migliaia di feriti nei bombardamenti di ritorsione israeliana sulla Striscia di Gaza, sottoposta a starvation da Israele. Sono atti che da entrambe le parti contravvengono alla Convenzione di Ginevra del 1949 che tutela i civili in caso di guerra e occupazione. Colpire in massa e indiscriminatamente i civili: che cosa, se non questo, è terrorismo? O da questa fattispecie criminale sono preservate le ritorsioni di Stato? “Terrorismo” è un’accusa da usare ad arbitrio nella propaganda contro un nemico, o è una fattispecie criminale che ha una sua consistenza di fatto e giuridica indipendentemente da quale entità o istituzione la pratica?
Martedì 24 ottobre il segretario generale delle Nazioni unite Antonio Guterres ha tenuto al Consiglio di Sicurezza un discorso in cui ricordava che tra le vittime civili dei bombardamenti di Gaza ben 35 persone lavoravano per l’Agenzia di soccorso dell’Onu. Del suo discorso riporto qui alcuni punti salienti:
“Ho condannato in modo inequivocabile gli orribili e inauditi atti di terrore compiuti da Hamas il 7 ottobre in Israele. Nulla può giustificare l’uccisione, il ferimento e il rapimento deliberato di civili, o il lancio di razzi contro obiettivi civili. Tutti gli ostaggi devono essere trattati umanamente e rilasciati immediatamente e senza condizioni […]. È importante riconoscere che gli attacchi di Hamas non sono venuti fuori dal nulla. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione. Hanno visto la loro terra costantemente divorata dagli insediamenti e tormentata dalla violenza, la loro economia soffocata, la loro gente sfollata e le loro case demolite. La speranza di una soluzione politica alla loro situazione svanita. Ma le rimostranze del popolo palestinese non possono giustificare gli spaventosi attacchi di Hamas. E questi terribili attacchi non possono giustificare la punizione collettiva del popolo palestinese”.
Guterres concludeva chiedendo un cessate il fuoco e proponeva di riprendere la prospettiva politica di “Due popoli, due Stati”.
Il punto cruciale del discorso di Guterres è questo: “Gli attacchi di Hamas non sono venuti fuori dal nulla. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione.”
Il governo di Israele è subito insorto, avendo interesse a fraintendere una spiegazione dei fatti compiuti da Hamas come fosse una loro giustificazione. Ma spiegare non è giustificare. Forse che spiegare il nazismo vuol dire giustificarlo? Piuttosto, il rinunciare allo sforzo di spiegarlo vuol dire accontentarsi di sublimarlo nella categoria metafisica del “male assoluto”, che come tutti gli assoluti non dice niente del fenomeno storico e di come affrontarlo nelle sue resilienze. A essere onesti, Guterres dice il vero: se da Israele e da Hamas non fosse stata lasciata aperta a suppurare per decenni la ferita palestinese, Hamas e Jihad non l’avrebbero ora a disposizione come argomento, non già per l’autodeterminazione dei palestinesi, ma per la mobilitazione di alleanze geopolitiche volte a scalzare Israele e gli Usa dal Vicino Oriente. Perché è questa l’intenzione di Hamas e dell’Iran, e non una soluzione positiva del conflitto israeliano-palestinese. E ha fatto bene Guterres a spostare, con la sua spiegazione delle condizioni in cui il terrorismo di Hamas ha potuto maturare e colpire, dalla sfera metafisica del “male assoluto” alle responsabilità politiche (di Israele, degli Stati Uniti, dell’Europa, dei palestinesi stessi) che con la loro inerzia hanno offerto a Hamas l’occasione operativa e alla responsabilità di una svolta per una soluzione politica e umana.
A fronte della posizione di Guterres, ben diversa la bozza approvata dall’assemblea generale dell’Onu il 27 ottobre; bozza presentata dalla Giordania a nome dei paesi arabi a favore di una tregua su Gaza e dell’ingresso di aiuti nella Striscia, dove non si condanna per nome l’azione di Hamas e non si parla della questione degli ostaggi. Per questo la bozza è stata rifiutata da Israele e dagli Usa e l’Italia si è quanto meno astenuta:
“Manca la condanna inequivocabile degli attacchi di Hamas a Israele, manca il riconoscimento del diritto di difendersi di ogni Stato sotto attacco, in questo caso Israele, e non menziona la richiesta del rilascio immediato e incondizionato degli ostaggi del 7 ottobre”, ha detto l’ambasciatore Maurizio Massari, rappresentante permanente italiano all’Onu.
Questo episodio all’Onu è di particolare gravità: la bozza presentata dalla Giordania a nome dei paesi arabi, reticente sulle responsabilità di Hamas e sulla profondissima ferita inferta a Israele, segna un ritorno indietro degli sforzi volti a una pacificazione tra Israele e i paesi arabi.
Mi si obietta che Hamas ha colpito il 7 ottobre soprattutto kibbutz e gente tutt’altro che sorda alla questione palestinese. Credo che la scelta della zona meridionale colpita sia dovuta soprattutto al fatto che è la più esposta logisticamente all’attacco, ma se si vuol considerare anche l’orientamento politico diffuso tra le vittime non ci sarebbe da stupirsi: il terrorismo fondamentalistico che punta non a soluzioni ma all’antagonismo colpisce di preferenza i “mediatori” piuttosto che gli antagonisti dell’altra parte. Facevano così anche le Brigate Rosse in Italia.

La particolare barbarie terroristica del­l’aggressione di Hamas, per sua premeditazione o comunque di fatto, presenta tre aspetti: la sua efferatezza è un’esibizione clamorosa volta a sancire un’egemonia fondamentalistica sulla questione palestinese; la sua sorpresa è un’esibizione di potenza che umilia la capacità, vitale per Israele, della sua deterrenza, rivelandola fallimentare; la sua crudeltà è un ricatto a Israele, perché si senta costretta a reagire nell’immediato e cada nella tentazione di una ritorsione senza limite: strage di massa e devastazione di Gaza, con conseguenze militari, politiche e di immagine disastrose per Israele, e corona di martirio per le sue vittime davanti al mondo.
Gli Stati Uniti, che dal 1956 avevano delegato Israele a rappresentare i propri interessi geopolitici nella regione, ora temono di essere coinvolti nello stesso suo vortice e cercano di trattenerlo dal precipitarvi: “Non fate gli errori che abbiamo fatto noi dopo l’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre del 2001”, ha detto Biden. Sicché non è del tutto chiaro il messaggio che vogliono dare gli aiuti militari e le portaerei americane schierate nella zona. Vogliono dire: vi rassicuriamo noi, per cui evitate di precipitare nel baratro; oppure, al contrario, con la nostra presenza militare suppliamo alla vostra deterrenza screditata e quindi fate quel che volete con la nostra deterrenza, andate fino in fondo, cioè a fondo?

La dottrina ufficiale delle istituzioni ebraiche è, a mia esperienza, che la Shoah è un unicum (e questo è vero) e in quanto tale non può essere confrontata con nessun’altra atrocità di massa, a meno di non volerla relativizzare e sminuire (e questo è falso).
Gli orrori estremi dell’attacco di Hamas hanno indotto molti a confrontarli precipitosamente con la Shoah. Eppure l’attacco di Hamas è durato meno di un giorno; la Shoah più di sei anni di persecuzioni, di deportazioni di massa a scala continentale, di campi di sterminio, di morti a milioni per fucilazioni di massa, per fame, torture, camere gas e forni crematori. Che cosa induce alcuni a rompere prontamente il dogma dell’inconfrontabilità? Quel dogma che metteva sotto accusa tutti coloro che ritenevano che dalla Shoah si dovessero trarre insegnamenti universali, per prevenire, combattere e condannare ogni atrocità di massa. Quel dogma è stato infranto proprio dai suoi sostenitori, per rinnovare la figura di Israele come vittima per antonomasia e in quanto tale esente da qualunque critica, in quanto tale titolare del diritto di compiere qualunque cosa a propria difesa, fosse anche di trasformare la guerra necessaria contro Hamas in guerra contro il popolo palestinese di Gaza e di Cisgiordania.
Il massacro compiuto da Hamas non è perdonabile; non è resistenza per il riscatto palestinese ma guerra contro l’esistenza di Israele e degli ebrei. Il massacro di Gaza per bombe e fame non sarà perdonato. Non è opera delle “vittime che si fanno carnefici” ma dei vittimisti che si fanno carnefici secondo la natura e la vocazione proprie di ogni nazionalismo oltranzista che fa del proprio vittimismo la giustificazione di ogni più estrema prevaricazione.
 
Nota del 31 ottobre
La riproposta ora dei due Stati ha senso in quanto riafferma la questione palestinese come non aggirabile. Quanto a fattibilità, è un’altra questione. Questione di spazi, terre e risorse, autonomie economiche e, nell’immediato, di guerra civile interna a Israele, con i coloni, ulteriormente armati dal ministro Ben Gvir contro il popolo di Cisgiordania. Armi pronte a rivoltarsi, verso l’interno. Mentre l’antisemitismo ha fatto un balzo in avanti, molto aggressivo, e lo mettono in evidenza in questi giorni le cronache degli Stati Uniti, e ciò rende molto ardua la viva controversia interna al mondo ebraico, là come in Israele e in Europa. Negli anni si è rafforzata la convergenza di interessi politici tra oltranzisti nazional religiosi israeliani con le loro estese propaggini nella diaspora affetta dalla nefasta sindrome dello “Stato guida”, e oltranzisti fondamentalisti islamici, qual è Hamas: entrambi erano concordi nell’escludere qualunque compromesso. Gli oltranzisti israeliani hanno favorito Hamas contro l’Anp in Cisgiordania, per dividere i palestinesi e rendere l’Anp di Cisgiordania impotente e subordinata. Questo favoreggiamento di Hamas è affine, a me sembra, al criterio per cui gli Usa hanno appoggiato i talebani contro l’Unione Sovietica in Afghanistan, per poi venir cacciati dall’Afghanistan dai talebani. Grande scuola!
È, mi sembra, una catastrofica illusione sconfiggere Hamas militarmente. Non si sconfigge con le armi un’“Idea”, inserita in una rete di potenze e movimenti mobilitati nella modificazione bellicosa del­l’assetto dei poteri e delle influenze nel mondo. Nello specifico poi, il prestigio guadagnato da Hamas nell’umiliare  Israele si sta estendendo tra i palestinesi di Cisgiordania e in diaspora, esasperati dalla criminale stupidità aggressiva dei coloni. Non si può sconfiggere Hamas congiungendola al popolo palestinese, confondendoli a Gaza in un comune martirio e in un comune prestigio di martiri. Ma questo sta appunto facendo Israele, schiacciato dal “non c’è alternativa”, con il tremulo freno di Biden. Si può sconfiggere Hamas solo politicamente e decisiva sarebbe la parte palestinese insofferente al fondamentalismo islamista di Hamas e Jihad. Ma questa parte è umiliata da decenni e certo Abu Mazen non ne ha l’altezza né il prestigio.
Come sarebbe necessario un rapido e radicale ricambio nella direzione di Israele, così sarebbe necessario nell’Anp a Ramallah. Ma questo ricambio si può tentare solo se da Israele e dalla Comunità internazionale sia proposta ai palestinesi una prospettiva e una speranza, un appoggio internazionale, fatto di investimenti politici ed economici.
Si potrebbe pensare a un assetto futuro confederale, con profonde autonomie... E per il ricambio dell’Anp: pensavo a una campagna internazionale per la liberazione dalle carceri israeliane di Marwan Barghouti, che sulla base delle mie scarse conoscenze potrebbe essere persona di intelligenza, di prestigio politico nonché di martirio all’altezza di valorizzare tra i palestinesi le prospettive, qualora ci fossero, che la cosiddetta comunità internazionale prospettasse. Dato il carattere e l’urgenza dei tempi, più probabili la catastrofe e la guerra.

Nota del 3 novembre
Che cosa avrebbe dovuto fare Israele? Provo a rispondere.
Di fronte all’aggressione di Hamas, Israele aveva da scegliere tra due urgenze: la prima, gli ostaggi; la seconda , riparare e ripristinare la propria deterrenza dimostratasi fallimentare, dando un colpo forte a Hamas per impedirle di continuare il bombardamento. Una vittoria su Hamas e una sua cancellazione non sembra credibile e, in ogni caso, mettersi in questa prospettiva implica uno sforzo di lungo periodo, o a tempo indeterminato.
Secondo me avrebbe dovuto prima di tutto prolungare la rivendicazione della liberazione degli ostaggi senza condizione, in modo di rappresentarsi giustamente come vittima di aggressione, e di far uscire il diniego o le pretese di Hamas per metterne in evidenza il ruolo di aggressore. Invece Netanyahu ha dichiarato apertamente che prima veniva il colpo da infliggere a Hamas e solo dopo veniva la questione degli ostaggi (riteneva che il proprio fallimento fosse esaltato soprattutto dal fallimento della prevenzione e difesa, mentre l’essere vittima lo riteneva dato per scontato, non concependo che alla sua ventennale politica fosse imputabile alcuna responsabilità nella situazione favorevole al colpo di Hamas).
Solo dopo un accanito e non breve tentativo sugli ostaggi, Israele avrebbe dovuto dare un colpo tremendo, ma non prolungato, su Gaza.
Nello stesso tempo, il governo forzato di coalizione avrebbe dovuto bloccare l’aggressione dei coloni in Cisgiordania, o almeno manifestare una forte polemica interna al governo su questo argomento, preludio di un cambiamento di linea dopo la caduta di Netanyahu.
L’errore strategico fondamentale mi sembra quello di aspirare alla vittoria totale su Hamas (errore affine a quello di Zelensky, e per altro verso a quello americano sui talebani), che prolunga la guerra e la distruzione indefinitamente e che secondo me rafforzerà Hamas (e le sue alleanze) in Cisgiordania e nella diaspora palestinese (e nell’opinione di destra-sinistra antisemita nel mondo) e farà di Israele uno Stato canaglia per la distruzione prolungata di città e di migliaia di civili.
Poi Israele dovrebbe perseguitare sulla lunga durata gli esponenti di Hamas, a Gaza e in giro per il Vicino Oriente, sul modello dell’uccisione sistematica e protratta negli anni degli autori dell’atto terroristico palestinese alle olimpiadi di Monaco del 1972. O anche sul modello della caccia a Bin Laden.
Poi dovrebbe procedere all’abbattimento già maturo di Netanyahu e rilanciare proposte di compromesso, incoraggiando interlocutori palestinesi interessati anche a combattere il fondamentalismo islamista di Hamas. Una campagna per la liberazione di Marwan Barghouti? Ma mettendo nel conto la possibilità di una guerra civile interna a Israele, promossa dalla reazione dei coloni e dei loro camerati e sostenitori.

Nota del 4 novembre

Difficile calibrare una posizione. L’aggressione di Hamas è gravissima, la strage della popolazione di Gaza e l’affamarla è gravissima. Entrambe sono de-legittimanti, di Hamas e della  politica pluridecennale di Israele, che l’ha ridotta a Stato, se non coloniale, colonialistico. Non credo che il problema sia l’indifferenza che l’appello di Grossman lamenta, ma la difficoltà di districarsi tra la gravità dell’aggressione intensiva di Hamas e l’aggressione intensiva di Israele su Gaza, dopo l’aggressione coloniale sistemica di Israele nei territori occupati, direttamente o indirettamente, come a Gaza. La legittimazione dell’esistenza di Israele ormai più che dalle ragioni della sua origine è data dal fatto che è uno Stato e nazione che vive da generazioni; la legittimità dei palestinesi sui territori è analoga: generazioni. Il comprensibile allarme e invocazione di Grossman è il lamento della nostra sconfitta: Vae victis, nostra colpa di vinti, anche a opera della maggioranza degli ebrei affetti dalla sindrome dello “Stato guida”, con i disastri che comporta in termini di degenerazione. Ora arriviamo al fondo, speriamo che sia il fondo da cui risalire. Il razzismo è in agguato nella nostre emozioni: siamo più emozionati per le vittime israeliane o per le vittime di Gaza? O riusciamo a esserlo da entrambi i lati?

Nota del 14 novembre
Diffusamente, si imputa all’intervento israeliano su Gaza il criterio dell’“occhio per occhio”. In questo terribile caso, rifiuto la citazione dell’“occhio per occhio”, che usa anche lo storico Giovanni De Luna, perché è una clausola di Hammurabi e della Bibbia completamente fraintesa: è usata come criterio di vendetta mentre è esattamente il contrario, imponendo una proporzione tra crimine e pena, un giudice terzo, il tribunale, e un termine di tempo che sancisce la chiusura del caso; mentre la vendetta può essere senza misura e non riguarda la terzietà, ma anzi la resa dei conti tra due parti, quella che è offesa e quella che ha offeso, e innesca una sequenza di vendetta e contro-vendetta senza sancirne una fine.
Su questo ho scritto un saggio nel mio Zone di turbolenza, “Occhio per occhio, misura per misura”. L’uso frainteso di questi termini, che mette sotto accusa la Bibbia originale, cioè il testo ebraico, lo ascrivo all’antigiudaismo di tradizione cristiana (da cui è meglio guardarsi, segnatamente in questo periodo), che contrappone la dismisura dell’amore cristiano alla misura giuridica ebraica.
L’intervento israeliano su Gaza è senza misura, senza conclusione attendibile, e cerca di evitare il giudice terzo.

Nota del 15 novembre
Un nostro appello che richiede la fine dei bombardamenti e della strage nella Striscia di Gaza ha creato una spaccatura tra gli ebrei democratici: alcuni sono contrari a un’interruzione dei bombardamenti perché ritengono che la distruzione militare di Hamas sia non solo possibile, ma prioritaria, come crede anche Netanyahu.
Netanyahu ha un conflitto di interesse nel continuare questa guerra: finché dura la guerra dura lui.
Hamas non desiste dal lancio di missili su Israele e certo è necessario lo sforzo di eliminare o almeno ridurne la forza militare, ma non al prezzo della strage di civili e della devastazione, che danneggiano profondamente la stessa Israele, politicamente e moralmente.
I bombardamenti aumentano il prestigio sacrificale di Hamas e del terrorismo come via senza alternativa per i palestinesi; e se è vero che il consenso a Hamas sembra calare tra gli abitanti di Gaza, che Hamas ha esposto alla ritorsione devastante di Israele, la sua influenza pare invece crescere tra i palestinesi della Cisgiordania, già sofferenti per la vessazione sistemica dell’occupazione israeliana, ora esasperati dall’aggressione armata dei coloni.

Per sconfiggere Hamas mi sembra sia necessario proporre una prospettiva politica (una svolta con appoggio internazionale) ai palestinesi ostili non solo all’oppressione di Israele, ma anche a Hamas perché contrari a sottomettersi al suo fondamentalismo islamista e al suo avventurismo terroristico. E intanto l’azione unilaterale di Israele lo isola e ne devasta le ragioni, rendendo più arduo l’appoggio internazionale a una svolta, necessaria alla sua stessa sopravvivenza, quanto meno come democrazia.
La strategia di annientare militarmente Hamas passando sopra migliaia di cadaveri a me sembra illusoria, e in più disastrosa per lo stesso Israele. Si ispira a una concezione secondo cui Hamas sarebbe un’insorgenza del famoso “male assoluto”, che esime nel combatterlo da ogni scrupolo e ritegno riguardo a “effetti collaterali” senza limiti; un male assoluto con cui non si deve trattare (almeno scopertamente) neppure su scambi di prigionieri per la salvezza degli ostaggi. Ciò in memoria di un’interpretazione non storica ma metafisica dell’antisemitismo, del nazismo e della Shoah, per cui non mette conto capirne la logica. Perché capire il nemico, cosa necessaria per combatterlo fino alle sue radici, viene frainteso come sua giustificazione. E dunque ci si attesta a definire Hamas come terrorista, come se il terrorismo non fosse una politica condotta con “altri mezzi” dalla stessa Hamas, che si nutre della questione palestinese per il suo disegno fondamentalista di distruzione di Israele e di espansione islamista in Medio Oriente.
Il “male assoluto”: da questo figura metafisica è discesa l’idea del presidente Reagan dell’impero del male, che esime dallo sforzo di comprendere la logica del nemico per poterlo combattere, mentre impone l’imperativo di annientarlo. E con un tale criterio, dal Vietnam in poi, gli Stati Uniti hanno perduto militarmente ogni guerra, dall’Iraq, all’ Afghanistan, mentre avevano vinto politicamente ed economicamente la guerra fredda con l’Urss.
Ora, traumatizzati nel profondo dall’invasione atroce di Hamas, è comprensibile che la maggioranza degli israeliani e degli ebrei vedano in Hamas ritornare il “male assoluto” e siano disposti a illudersi (fino ad allinearsi temporaneamente con Netanyahu) che sia possibile eliminare militarmente Hamas, e che questa sia la priorità inderogabile; mentre è molto più probabile che con la devastazione di Gaza e la guerra prolungata si stia moltiplicando nel mondo l’ostilità verso Israele e di contro cresca il prestigio sacrificale di Hamas e della tendenza islamista e fondamentalista in Medio Oriente. E da questo si sentono minacciati gli stessi Stati islamici per prevedibili insorgenze fondamentalistiche di massa al proprio interno.
Per tale interpretazione del “male assoluto” e della Shoah, Israele si va suicidando di Shoah. Di fronte a questo, la dimensione tragica di Sofocle e di Eschilo è poca cosa.
Quale messaggio daremo dalle “giornate della Memoria”, quando saremo chiamati a testimoniare delle deportazioni e del genocidio nei lager, sullo sfondo dei trasferimenti forzati, delle cacciate di palestinesi e delle stragi di Gaza? Perché questa è una domanda, implicita o esplicita, che graverà sulla Memoria. Ci ripareremo dietro l’usbergo metafisico del male assoluto, inconfrontabile con ogni male relativo, specie se fatto in nostro nome? Come declineremo la memoria della Shoah, su questo sfondo attuale? O la memoria della Shoah ricadrà su di noi, si ritorcerà su di noi in una misura mai successa prima?

Nota del 16 novembre
Dico che il massacro di Gaza si ritorcerà su di noi. Sarà forse spontaneo per la maggioranza degli ebrei  trincerarsi dietro l’idea che è tutta colpa di Hamas, ma al di fuori degli ebrei la domanda che si faranno e che ci faranno porrà il problema di quale luce o tenebra verrà dallo sterminio di Gaza sulla memoria della Shoah. Ho fatto pressoché tutte le giornate della Memoria da quando è stata istituita, e ora penso con timore al prossimo 27 gennaio. Che cosa dirò, che cosa diremo? Il confronto tra Shoah e Gaza sarà comunque nell’aria.
Penso che la devastazione, l’affamamento e la strage indiscriminata di Gaza rechi un danno gravissimo alla Memoria della Shoah e al suo messaggio universale sui “crimini contro l’umanità”, memoria e messaggio che sono stati finora un usbergo importante contro l’antisemitismo. L’antisemitismo era già in ripresa per il diffondersi della destra in Occidente; la convergenza tra l’antisemitismo da destra e quello da sinistra non li sommano ma li moltiplicano, la devastazione di Gaza li estendono come senso comune, come ovvietà, fondendo il pre-giudizio di tradizione col post-giudizio politico. D’altra parte, l’antisemitismo moderno è stato fondamentalmente un’imputazione politica contro gli ebrei: tali già erano ad esempio i Protocolli dei Savi di Sion.  
La protezione contro l’antisemitismo si attesterà non sull’evidenza del genocidio del passato, ma su un tabù via via debilitato dall’evidenza dell’oggi: la distruzione e i massacri “ebraici” di Gaza. L’abuso nazionalistico del vittimismo riferito alla Shoah, usata politicamente come usbergo per legittimare ogni abuso di Israele verso i palestinesi come eterna “legittima difesa” ci sta cadendo addosso.

Nota del 22 novembre
Dopo 1.200 massacrati e 240 ostaggi rapiti da Hamas e Jihad nell’invasione del 7 ottobre nel sud di Israele; dopo più di 13.000 uccisi e circa 40.000 feriti dai bombardamenti sulla striscia di Gaza, devastata e sottoposta alla fame, alla sete, alla privazione di beni necessari alla vita; dopo questi “crimini contro l’umanità”, come definiti dal Trattato di Roma, perpetrati da Hamas e da Israele, si è ora giunti a una trattativa tra il governo di Israele e Hamas per uno scambio tra 13 ostaggi e 39 detenuti palestinesi nelle prigioni israeliane. Con una interruzione temporanea dei bombardamenti da entrambe le parti.
Questa trattativa a me sembra una necessità per Israele ma anche un limitato successo politico di Hamas: ha conquistato il ruolo di partner in una trattativa, liberando bambini e donne da prigioni israeliane e ottenendo l’ingresso di aiuti e la sospensione dei bombardamenti peraltro da essa stessa provocati. A me pare che questa trattativa, pur nel corso di bombardamenti, il governo di Israele l’avrebbe dovuta impostare fin dall’inizio come iniziativa propria, mentre ora gli è imposta non solo dalla giusta pressione delle famiglie dei massacrati e degli ostaggi del 7 ottobre, ma dagli Usa, preoccupati da un’estensione del conflitto e dal Qatar finanziatore di Hamas.
Dopo questa breve tregua e l’ammissione di uno spazio di trattativa, che significato avrebbe la ripresa della guerra a oltranza? Non metterebbe maggiormente in evidenza che una sua prosecuzione senza termine è un conflitto di interessi di Netanyahu e del suo governo di estrema destra perché più dura la guerra più essi evitano una resa dei conti sui loro errori politici e sui loro reati su cui sono in attesa i tribunali d’Israele? Con la continuazione della guerra per un’inattendibile estirpazione di Hamas, Netanyahu ridurrebbe Israele a proprio ostaggio a tempo indeterminato.

Ultima nota, del 24 novembre
Il rilancio del tema “Due popoli, due Stati”, che anch’io ritengo, nel prevedibile, non praticabile, ha però il pregio di risollevare la questione palestinese, messa a tacere da decenni. È impraticabile, com’è noto, per la frantumazione dei territori palestinesi, imposta da Israele negli anni; e perché comporterebbe una guerra civile interna a Israele con i coloni ulteriormente armati dal governo di estrema destra. E probabilmente implicherebbe anche una guerra civile interna ai palestinesi, tra islamisti e laici.
La guerra attuale, ufficialmente contro Hamas, e di fatto contro i palestinesi, ha certo tra le sue funzioni di imporre un’unità nazionalistica contro il nemico per coprire e aggirare la spaccatura sullo Stato di diritto, acceso nelle settimane di mobilitazione della metà di Israele contro il governo di Netanyahu precedenti all’aggressione di Hamas.
La prospettiva “Due popoli uno Stato” imporrebbe viceversa un conflitto accentuato sullo Stato di diritto, e la necessità di una Costituzione che manca, senza la quale la formula “uno Stato” implicherebbe l’istituzione formale di uno Stato di Apartheid e la fine formalizzata di Israele come democrazia. Stante anche la premessa della legge promossa dalla destra che definisce Israele Stato (esclusivamente) ebraico passata quattro anni fa alla Knesset con soli due voti di maggioranza. Comunque uno Stato democratico per due popoli implicherebbe uno scontro non solo con la destra politica ma anche con quella religiosa. E dato l’odio interetnico tra ebrei e palestinesi maturato in tanti anni, uno Stato imporrebbe di necessità separatezze,  forme di reciproca autonomia di tipo federale: Gaza, Israele, Cisgiordania. La prospettiva di uno Stato implicherebbe una discussione su questo, e la relativa Costituzione dovrebbe prevederle.
Non credo che Israele, e gli ebrei implicati nella sindrome dello “Stato guida” di infausta memoria, abbiano l’energia per una teshuvà, per una sostanziale svolta in questa generazione, e quindi continuerà la degenerazione. La pressione degli alleati di Israele che sarebbe necessaria per aiutarlo in questa svolta e trasformazione mi sembra fiacca e indecisa.
Amaramente, l’esito più probabile di questa catastrofe sarà la sostanziale continuità della politica di Israele: l’emigrazione di palestinesi per insostenibilità della vita sotto vessazione sistemica, riduzione del loro numero e del loro peso politico, conferma dell’occupazione ed espropriazione crescente dei loro territori, degenerazione della qualità democratica di Israele e logoramento del prestigio politico e morale di Israele e con esso degli ebrei; nuova popolarità dell’antisemitismo in crescita. E imbarazzo della memoria della Shoah di fronte alla devastazione di Gaza e della strage negli ospedali, nelle scuole, nelle case...
Tutto ciò sarà accolto con soddisfazione dalle destre nazionalistiche nel mondo, alleate della politica di Israele da un lato e dell’antisemitismo di destra e di sinistra dall’altro.
Ciò non ci esime dalla lotta a fianco di una grande parte di Israele e degli ebrei. Servirà nel tempo, non solo alle nostre coscienze.