“Amo le vite che quasi non parlano”, recita un verso famoso di una poesia di Saba del 1944. Da quando, il titolo: “Da quando la mia bocca è quasi muta / amo le vite che quasi non parlano”. Ho invidiato la rapidità e la lucidità con cui Stefano Levi Della Torre ha iniziato a parlare ventiquattro ore dopo il 7 ottobre. Non ne sono stato capace, la mia testa è confusa, cerco conforto nelle persone che quasi non parlano, intorno trovo solo odio. Gli ho espresso il mio dissenso privatamente, ma gli ho anche promesso una replica. Non voglio sottrarmi all’impegno preso, ma avverto che dei miei pensieri disarticolati il primo a dubitare sono io stesso: invidio le certezze di Stefano. Amo le vite che quasi non parlano, a partire dalla mia, ma qualche cosa bisogna pur dire.

Contrariamente a quanto si continua a dire, credo che quanto è accaduto negli ultimi mesi smascheri non la forza, ma la fragilità di Israele. Soltanto gli ingenui -e mi dispiace trovare tra questi Stefano- potevano credere che Hamas non avrebbe approfittato delle lacerazioni che hanno attraversato Israele prima del 7 ottobre. Guardando con gioia la società israeliana reagire ai soprusi del suo Primo ministro, inebriati dai nostri ideali, non abbiamo voluto capire che Hamas non aspettava altro per attaccare. Ne consegue inoltre che Israele non è una democrazia compiuta come di nuovo si ripete come un mantra.
La democrazia e lo stato di diritto sono in crisi lì come in molta parte del mondo occidentale, ma c’è un dettaglio da aggiungere. Contrariamente a quanto si crede, Israele non può concedersi il lusso di mostrarsi democratica. Non può liberamente scendere in piazza a manifestare dissenso come a Parigi o Roma. Nel momento in cui lo fa si espone agli attacchi.
Un rave in Cisgiordania era impensabile. Vicino a un kibbutz a due passi dai reticolati? Da non crederci. Ingenua mi è parsa anche la domanda senza risposta di Adriano Sofri: perché Hamas non ha sferrato il suo attacco contro i coloni? Semplice: perché i coloni dormono con il mitra sotto il cuscino, come nel 1947 il babbo della Schlein (una voce che “quasi” non ha parlato, ma il poco che ha detto era centrato).
La politica dell’Onu che ha contribuito a mantenere milioni di persone nella condizione di profughi, per generazioni e generazioni, è la chiave del problema, ma nessuno parla. Le lacrime di Guterres al valico di Rafah erano di coccodrillo.  Se questo non diventa ovvio e lampante, non si arriverà mai neppure a iniziare la soluzione del problema. In qualunque modo la soluzione dovrà prevedere imponenti spostamenti di popolazione. Altrimenti saranno stragi periodiche e alla lunga vincerà il più forte (è la speranza di Israele e di Hamas) o si distruggeranno entrambi a vicenda (è la cosa più probabile). L’altra chiave del problema è smettere di ideologizzare ogni scontro come una lotta fra bene e male, buoni e cattivi.
Trovo di nuovo ingenuo il ricorso a Maimonide, che Stefano chiama in causa: la quarta corona, quella del buon nome (shem tov) è aspirazione da anima bella. Maimonide non prevale su Machiavelli. Non esistono Stati che possano vantare un buon nome e se gli ebrei lo hanno qualche volta pensato, hanno peccato di superbia. Stefano che in queste cose è più bravo di me, troverà la lezione dei Maestri che ce lo ricorda. Nel momento in cui nascono gli stati perdono la loro verginità. Non è un argomento serio questo. Quale Stato può vantare un buon nome?

La voce più acuta che ho letto in queste settimane è in un’intervista di Wlodek Goldkorn a “Huffington Post”, dove non si dà spazio a nessuna ingenuità. La sola voce chiara che ha parlato senza “quasi”. Wlodek scrive che il primo passo dovrebbe essere una generale amnesia da parte delle due parti in lotta: la cancellazione di quella rincorsa indietro nel tempo per dimostrare che la colpa dell’avversario precede la propria. Se la politica repressiva dei coloni è come dice Stefano “sistemica”, facile obiettare che tale è diventata per la “sistemica” assenza dall’altra parte di un progetto di pace vero. Trattare con un paese arabo non è stato e non è facilissimo: lo sanno bene la mamma e il papà di Giulio Regeni.
Sistemico è anche il nostro stanco modo di rivangare il passato e di affrontare la questione. Mi è venuta in mente la tesi sull’oblio di Renan. Quell’oblio che solo può rendere possibile la nascita di una Nazione su basi solide e dunque favorire un’età di pace. Renan parlava dei disastri anche umanitari che hanno seguito la Rivoluzione francese. Vorrei che israeliani e palestinesi facessero tabula rasa del passato e l’oblio calasse sulle loro coscienze.
Il pensiero di Stefano mi sembra fermo al quadro internazionale del 1982, che era completamente diverso da quello odierno. Uguale al 1982 mi sembra invece sempre la voce degli intellettuali e i loro appelli, che suscitando la sorpresa di tante persone che stimo, io non firmo mai per principio. In mezzo c’è stato il 1989, le politiche memoriali, l’uso “sistemico” delle leggi razziali a scopi politici contingenti. Evidentemente si parlava di un antisemitismo astratto e polveroso.
Oggi lo si rivede germogliare quel frutto avvelenato, ma non vedo in giro molti che ne denuncino la riemersione.
Fra coloro che usavano a fini politici il 1938 o contestavano la commercializzazione della ­Shoah non vedo levarsi voci ferme e decise, non mi arrivano appelli da firmare. Ne sono usciti due più o meno simili di appelli, a poche settimane l’uno dall’altro: ricordo il tormento di Primo Levi che firmò il capostipite di un genere letterario che inquieta gli animi e riesplode a ogni crisi mediorientale. Nell’editoriale dello scorso numero Saporetti rilevava giustamente le grida contro la Meloni fascista e il silenzio sul fascismo di Hamas.

Il quadro internazionale a me sembra si faccia ogni giorno più chiaro e più cupo. E ciò impone da parte nostra lucidità nel capire da che parte si dovrà stare. Estremizzo, sapendo di suscitare una reazione forte. Spero di sbagliarmi. La debolezza che Israele ha iniziato a dimostrare assai prima del 7 ottobre ed è oggi palpabile nel contratto fra governo e famigliari degli ostaggi, non rende (per fortuna) ancora imminente, ma già visibile ai miei occhi, in lontananza, il giorno in cui io e buona parte dei firmatari di questi appelli ci troveremo d’accordo, nella non gradevole condizione di organizzarci per andare a dare in qualche modo una mano.
Come nel 1947 fecero Guido Valabrega, Corrado Vivanti, Arrigo Levi. Decisero di partire non certo per tutelare il “buon nome” dello Stato appena nato, ma per garantirne la sopravvivenza.