La crisi che col fascismo ha avuto il suo punto culminante era già in pieno sviluppo prima della guerra europea del 1914-1918. Non è particolare all’Italia, per quanto solo da noi abbia raggiunto manifestazioni di particolare gravità, ma comune a quasi tutti i paesi di Europa. Non è solo una crisi morale e sociale. È sopratutto la crisi dello Stato: dello Stato moderno, come in quest’ultimo secolo ce l’hanno organizzato le classi dirigenti, come l’hanno accettato le classi dominate. È la crisi della sovranità, il fallimento degli Istituti rappresentativi. Lo Stato sopra la Nazione, il Parlamento incapace di dominare lo Stato, la Nazione che non può riconoscersi nel Parlamento: ecco il prospetto della situazione.
Per mezzo secolo classi e partiti si sono mossi unicamente nell’illusione che non esistesse che un mezzo di azione -lo Stato; che un istrumento di predominio -lo Stato; che una provvidenza -lo Stato. Lo Stato poteva tutto: il male ed il bene. Allo Stato si riconobbe il possesso di tutte quelle capacità che non si riconoscono nei gruppi e nelle classi. Se l’iniziativa in questi mancava, poteva partire dallo Stato. Se il commercio languiva, lo Stato aveva i mezzi per dargli incremento. Se l’industria difettava, lo Stato poteva farla sorgere e, se era anemica, farla divenire robusta e potente. Se le classi operaie non possedevano la forza sufficiente a modificare in proprio favore i rapporti tra le classi e le condizioni sociali, era allo Stato che se ne doveva affidare il compito. E lo Stato, in forza di tale illusione, assorbì tutti i poteri ed il maggior numero di funzioni; intervenne in ogni umana faccenda; assunse servizi; eserci trasporti ed industrie; disciplinò il commercio; moltiplicò le leggi, i controlli, le tasse, i funzionari. Tutto il meccanismo della vita sociale ne riuscì trasformato, i poteri vennero centralizzati, le autonomie soppresse, e la burocrazia assunse proporzioni mostruose.
La guerra portò improvvisamente lo Stato al limite massimo del suo sviluppo, determinando una situazione economicamente artificiosa, finanziariamente disastrosa, socialmente insostenibile, della quale le proporzioni spaventose raggiunte dai debiti pubblici sono l’indice più impressionante. Un passo avanti c’è il precipizio. È in dipendenza dello sviluppo raggiunto dall’organizzazione statale e delle funzioni regolatrici che esso si è assunto in tutti i campi dell’umana attività che le insolidarietà sono divenute quanto mai numerose ed aspre. È in dipendenza di ciò, sopra tutto, che i partiti politici si videro ridotti alla impotenza e che la loro azione, finché volle svolgersi nei limiti della legalità e attraverso il sistema rappresentativo, si ridusse ad essere una azione puramente esteriore. Il fascismo si è sviluppato e si è affermato rapidamente appena apparve in modo per tutti evidente che il Parlamento era incapace ad assolvere il compito direttivo per il quale venne istituito e incapace persino ad esercitare sullo Stato una semplice funzione di controllo. Ha vinto quando la libertà nella coscienza dei cittadini, non era più che un nome e l’istituto parlamentare era caduto nel più completo discredito.
La sua vittoria è l’ultima fase della crisi. Dopo non ci può essere che la liquidazione e la ricostruzione.
Allorché si riconosce -come tutti ormai riconoscono- che la crisi che travaglia particolarmente l’Italia è una crisi di regime, si riconosce anche implicitamente che è in una revisione delle istituzioni dominanti che la crisi deve essere superata.
È a due esigenze fondamentali della vita moderna che lo Stato attuale non ha saputo rispondere o non è in grado di rispondere: l’esercizio effettivo della sovranità da parte dei cittadini - lo sviluppo di tutte le forze produttive. Già è un secolo che Carlo Cattaneo osservava che "per effetto delle immani forze aumentate di mano in mano al governo, la libertà faticosamente conquistata sfuggisse ai popoli eternamente di mano” e constatava che "quando ingenti forze, ingenti ricchezze ed onoranze stanno racchiuse in un pugno di una autorità centrale, è troppo facile costruire od acquistare la maggioranza di un unico parlamento”. Allorché egli parlava così si era appena agli inizi di un processo che successivamente s’è andato sempre maggiormente sviluppando. L’accentramento ha fatto dello Stato una macchina mastodontica che non si lascia guidare, il cui controllo è impossibile, dove si possono conquistare posizioni di privilegio, ma dove l’interesse generale collettivo non ha modo di farsi valere. Per l’accentramento la democrazia non ha potuto organizzarsi nello Stato e suffragio universale e rappresentanza proporzionale si ridussero a forme esteriori di sovranità popolare di cui la sostanza mancava.
Se la sovranità dei cittadini praticamente si annullava proprio quando doveva imprimersi nello Stato, l’interesse produttivo fu pur esso sacrificato. Una delle spinte maggiori al centralismo è venuta precisamente dalla illusione che lo Stato potesse utilmente sostituirsi alla iniziativa privata in una infinità di faccende nel campo economico. Intervenzionismo e protezionismo hanno operato nello stesso senso e cogli stessi effetti: fra l’uno e l’altro i rapporti sono inestricabili. Il risultato consiste in uno sperpero costante di energie e di capitali. Ogni impresa produttiva dello Stato è un insuccesso: lo Stato costa alla totalità dei cittadini più di quello che ad essi rende. Gli interessi privilegiati e parassitari si sono inseriti così fortemente nel suo organismo, che tutta l’attività legislativa si è volta alla loro soddisfazione. Nessuno s’interessa sul serio di produttore, ma ciascuno mira a conquistare una posizione privilegiata nello Stato. La lotta politica e sociale ha raggiunto per ciò le attuali forme di asprezza. Per ciò la violenza armata ha finito con l’essere l’elemento determinante delle situazioni politiche.
Nell’immediato dopo guerra tutte le forze sociali hanno avuto una sola mira particolare, una sola preoccupazione: conquistare nello Stato una posizione di privilegio a danno della collettività. Sono gli interessi più forti, meglio organizzati e meglio provvisti di mezzi che hanno armato il fascismo. Per quanto il fascismo non avesse chiaro dinanzi a sé il compito che andava ad assumersi, e si trovassero in esso confuse le aspirazioni più diverse e le più ingenue illusioni e anche, riconosciamolo, una sincera volontà, in molti dei suoi aderenti, specialmente nella parte giovane di essi e quindi più entusiasta e meno preparata, di operare il rinnovamento della vita pubblica italiana, nell’azione pratica ha dovuto fatalmente seguire la logica centralista. Ci sarà facile vederlo quando passeremo ad esaminare quest’ultima e probativa esperienza della nostra vita politica. La logica centralista doveva portarlo alla dittatura ed alla soppressione di tutte le libertà formali, anche di per se stesse quasi innocue e cioè senza effettiva influenza sulla condotta dello Stato. Ma determinava in tal modo anche un turbamento maggiore, d’interessi, approfondiva le insolidarietà sociali e le rendeva visibili e sensibilissime, offendeva i sentimenti intimi di dignità e di autonomia dei cittadini, ponendo concretamente per tutti il problema della libertà nello Stato.
È questo il problema vivo ed urgente dell’Italia presente.
Risolverlo non si può senza tener conto di due esperienze egualmente compiute: l’esperienza liberale e l’esperienza fascista.
Occorre ricostruire lo Stato!
Tratto da "Volontà”, Anno I/1
luglio 1946, pagg. 40-41
Un saggio di Oliviero Zuccarini uscito su “Volontà” del luglio 1946

Una Città n° 211 / 2014 marzo
Articolo di
Il fallimento dello Stato in Italia
“Allo Stato si riconobbe il possesso di tutte quelle capacità che non si riconoscono nei gruppi e nelle classi. Se l’iniziativa in questi mancava, poteva partire dallo Stato. Se il commercio languiva, lo Stato aveva i mezzi per dargli incremento. Se l’industria difettava, lo Stato poteva farla sorgere”. Per il “reprint” pubblichiamo un saggio di Oliviero Zuccarini uscito su “Volontà” del luglio 1946
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