La famiglia di mia madre è arrivata in Israele dall’Ungheria all’inizio degli anni ’20, mi sembra nel 1923, lei aveva solo due anni. Mio padre invece era originario della Romania. Dopo aver perso il padre e la madre si era trasferito a Parigi dalla sorella, allora studentessa di medicina. Durante la guerra la sorella, divenuta medico, aveva fatto parte della resistenza francese perdendo la vita.
A Parigi mio padre lavorava in un’impresa delle ferrovie e divenne membro del movimento giovanile sionista. Si trasferì in Israele nel 1938, aveva 22 anni. Andò a vivere nel kibbuz Ruhama, dove gli vennero affidati incarichi di responsabilità. Rimase fino al 1944, quando se ne andò per motivi ideologici. Il kibbuz era nel nord del Negev. Già il primo anno mio padre scrisse un articolo polemico sullo slogan del movimento socialista cui anch’egli apparteneva. Il motto era infatti: "Per il sionismo, per il socialismo e per la fratellanza nazionale” e lui ebbe a commentare: "Adesso capisco cosa vuol dire fratellanza nazionale: gli arabi seminano e noi raccogliamo!”.
Allora infatti erano stati confiscati i raccolti ai villaggi arabi. Fu così che abbandonò il kibbuz ed aderì all’ala più di sinistra del movimento sionista. Nel 1954 entrò a far parte del Maki, il Partito comunista israeliano, in cui rimase fino alla morte. Quando il partito si divise in due fazioni, una a maggioranza ebraica e l’altra a maggioranza araba e antisionista, aderì a quest’ultima che prese il nome di Rakah. Aveva uno spirito assolutamente internazionalista. Trasferitosi ad Haifa faceva l’operaio in una fabbrica chimica. Quando Emile Habibi, lo scrittore arabo israeliano, decise di lasciare la Knesset, fu mio padre a prendere il suo posto. Habibi aveva iniziato a scrivere moltissimo dopo la guerra del 1967 e nel 1971 si era reso conto che non riusciva a gestire questi due ruoli di scrittore e di attivista politico. C’è un proverbio arabo che dice: "Non puoi tenere due angurie in una sola mano”. E così abbandonò la politica per la letteratura.
Questo accadde nel 1972, l’anno in cui venni arrestato: a febbraio mio padre entrò alla Knesset e a giugno io entrai in prigione. L’ironia della sorte.
Allo scoppio della guerra del ’67, io avevo subito preso posizione denunciando le responsabilità israeliane. Sapevo che anche l’Egitto aveva avuto un ruolo, ma avevo l’impressione che Israele avesse interesse a non fare accordi con gli stati arabi. Anche durante la prima fase dell’occupazione, mentre facevo il servizio di riservista, non smettevo di discutere con soldati e ufficiali per far valere le mie posizioni e alla fine fui buttato fuori dall’esercito. Ero nei paracadutisti, non mi richiamarono più a fare il riservista.
Dopo la guerra il mio impegno politico si intensificò. Nel 1968 aderii a un gruppo di sinistra che si chiamava Matzpen. Era molto piccolo ma faceva molto chiasso: ci battevamo sia in Israele che all’estero contro l’occupazione. Da subito il nostro slogan fu: "Basta con l’occupazione!”; ci consideravano pazzi. Anche se il Matzpen era un gruppo così piccolo, c’erano fortissime differenze di opinione al suo interno: c’erano i maoisti, i trotzkisti, gli anarchici ecc. Alla fine degli anni ’70 iniziammo a interessarci agli sviluppi politici dei movimenti palestinesi. Era l’epoca di "settembre nero”, quando Re Hussein di Giordania aveva espulso dal paese migliaia di palestinesi ed era sorto l'omonimo gruppo.
Più o meno negli stessi anni erano sorti il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina di Habash (nel 1967) e due anni dopo il Fronte Democratico popolare di Hawatmeh.
Sempre nel 1969, avevamo letto con attenzione la dichiarazione di Al Fatah in cui si sanciva che il nemico non era lo Stato ebraico, ma il movimento sionista.
Ecco, quello per noi fu un momento cruciale, di svolta. Per la prima volta sentivamo una voce distinta da quella di Shukeiri, primo capo dell’Olp e di quei nazionalisti che sostenevano che gli ebrei andavano tutti buttati a mare. Per la prima volta sentivamo una voce che legittimava, riconosceva i diritti del popolo israeliano in quanto esseri umani.
Naturalmente questo non voleva dire riconoscere la politica di occupazione sionistica, ma quella non la legittimavamo nemmeno noi!
A quel punto cercammo dei contatti con i palestinesi e, nell’estate del ’70, un mio amico residente in un villaggio arabo, ...[continua]
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