Vorremmo che tu ci parlassi del rapporto fra Mazzini e il socialismo.
Parto da due testi del Novecento, per poi riprendere dall’inizio. Entrambi gli autori si occupano del rapporto fra Mazzini e il socialismo: Salvemini, col suo saggio su Mazzini (1905), e, dopo la Prima guerra mondiale, Nello Rosselli, con Mazzini e Bakounine (1927). Il primo si occupa della fase germinale del modello mazziniano, il secondo della crisi, della fase terminale del mazzinianesimo, vivente ancora l’Apostolo.
Salvemini sostiene che Mazzini, fondamentalmente, si inserisce nel grande filone di riforma sociale che fiorisce in Europa intorno al 1830, in Francia in primo luogo ma non solo: un filone riconducibile alla famiglia di Saint-Simon, cioè all’idea che una grande alleanza dei produttori, contro i percettori della rendita, debba diventare il soggetto del rinnovamento europeo. Il lavoro, che funge da integratore di pezzi di società rimasti fino ad allora esclusi, è il concetto chiave del progressismo sociale ottocentesco. Questa, in sintesi, l’impostazione di Salvemini.
L’idea invece di Nello Rosselli parte da una domanda: come mai, dopo l’unità d’Italia, Mazzini perde il contatto coi giovani, con la generazione post-risorgimentale, quella dei figli di chi lo aveva sostenuto? Perché questi giovani lo abbandonano per approdare all’Internazionale? Il giudizio di Rosselli è molto interessante anche perché, pur muovendo dalla critica alla tradizione risorgimentale, non è "tagliato con l’accetta”;
Rosselli, in altre parole, tende a valutare anche gli aspetti grigi di questa fase, che ci sono certamente. Secondo Rosselli, l’abbandono di Mazzini sostanzialmente si gioca non tanto sul terreno sociale ma su una percezione di tipo politico: l’incapacità del vecchio leader di leggere un presente figlio di una doppia crisi: quella del garibaldinismo, anzitutto, e cioè la fine della possibilità di costruire l’Italia dal basso. Dopo Mentana (1867) si prende atto che, se mai si farà, l’unità d’Italia con Roma e Venezia non la farà il popolo: la generazione dei "nati troppo tardi”, venuti dopo l’epopea dei Mille, si trova improvvisamente déracinée, priva del "mito conclusivo” della rivoluzione nazionale. In secondo luogo, scoppia la crisi del macinato, che colpisce i ceti popolari: un’emergenza sia finanziaria, legata alle spese della guerra del 1866 e alla svalutazione della lira, sia economico-sociale, dovuta a cattive annate agrarie, che culmina appunto nella tassa sul macinato (cioè sulle farine) introdotta nel 1868 dalla Destra storica per inseguire il pareggio di bilancio.
La combinazione di questi due elementi spinge i giovani "scapigliati” a credere nella necessità di una scorciatoia rivoluzionaria, mentre l’idea di andare avanti nella cooperazione, con capitale e lavoro nelle stesse mani, l’idea cioè di una nazione che evolve per integrazioni progressive, perde credibilità. Il sentimento di rabbia e di rigetto dell’ordine costituito esplode con la Comune di Parigi (1871), che, agli occhi di questi gruppi, sembra diventare il grande detonatore del futuro europeo.
Che posizione prende Mazzini sulla Comune di Parigi?
Mazzini riconosce il valore della Comune, della rivolta del Comune di Parigi contro lo straniero in quanto insurrezione popolare dotata di una sua legittimità; contesta, però, la visione bakuniniana che da essa fa discendere la prova generale dell’autogoverno dei produttori, cioè di una specie di federalismo autarchico, parente stretto del comunismo comunitario. Perché? Perché, per Mazzini, al di fuori della nazione non c’è integrazione sociale possibile per i ceti popolari.
La frammentazione delle esperienze dal basso, in assenza del propulsore e del catalizzatore nazionale, non ha senso. Il che non significa (attenzione!) che debba essere lo stato a promuovere da solo le politiche d’integrazione sociale; possono (anzi, debbono) farlo anche le libere associazioni. Per Mazzini, fra la nazione (come quadro di valori e di mobilitazione politica) e lo stato, corre lungo tratto. Come vedremo.
Da un certo punto di vista, egli è più indietro rispetto agli eventi, perché la sua critica risente della visione dei microstati ancora ottocenteschi; in realtà è più acuta, perché intuisce nella nazione l’integratore sociale per eccellenza, e sappiamo che così è poi avvenuto fra Otto e Novecento. Ma questo essere avanti e indi ...[continua]
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